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mercredi, 22 novembre 2017

La concretezza geopolitica del diritto in Carl Schmitt

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La concretezza geopolitica del diritto in Carl Schmitt

La produzione teorica di Carl Schmitt è caratterizzata dalla tendenza dell’autore a spaziare in diversi settori di ricerca e dal rifiuto di assolutizzare un solo fattore o ambito vitale. Nonostante gli siano state rivolte frequenti accuse di ambiguità e asistematicità metodologica – in particolar modo da chi sostiene la “purezza” della scienza del diritto -, in una delle sue ultime interviste, rilasciata nella natia Plettenberg, Schmitt ribadì senza mezzi termini la sua radicale scelta esistenziale: «Mi sento al cento per cento giurista e niente altro. E non voglio essere altro. Io sono giurista e lo rimango e muoio come giurista e tutta la sfortuna del giurista vi è coinvolta» (Lanchester, 1983, pp. 5-34).

Un metodo definito sui generis, distante dalle asettiche teorizzazioni dei fautori del diritto positivo ma non per questo meno orientato alla scienza giuridica, sviscerata fin nelle sue pieghe più riposte per ritrovarne la genesi violenta e i caratteri concreti ed immediati, capaci di imporsi su una realtà che, da “fondamento sfondato”, è minacciata dal baratro del nulla.

In quest’analisi si cercherà di far luce sul rapporto “impuro” tra diritto ed altre discipline, in primis quella politica attraverso cui il diritto stesso si realizza concretamente, e sui volti che questo ha assunto nel corso della sua produzione.

1. Il pensiero di Schmitt può essere compreso solo se pienamente contestualizzato nell’epoca in cui matura: è dunque doveroso affrontarne gli sviluppi collocandoli in prospettiva diacronica, cercando di individuare delle tappe fondamentali ma evitando rigide schematizzazioni.
Si può comunque affermare con una certa sicurezza che attorno alla fine degli anni ’20 le tesi schmittiane subiscano un’evoluzione da una prima fase incentrata sulla “decisione” a una seconda che volge invece agli “ordini concreti”, per una concezione del diritto più ancorata alla realtà e svincolata non solo dall’eterea astrattezza del normativismo, ma pure dallo “stato d’eccezione”, assenza originaria da cui il diritto stesso nasce restando però co-implicato in essa.

L’obiettivo di Schmitt è riportare il diritto alla sfera storica del Sein – rivelando il medesimo attaccamento all’essere del suo amico e collega Heidegger -, che si oppone non solo al Sollen del suo idolo polemico, Hans Kelsen, ma pure al Nicht-Sein, allo spettro del “Niente” che sopravviveva nell’eccezione, volutamente non esorcizzato ma troppo minaccioso per realizzare una solida costruzione giuridica. La “decisione”, come sottolineò Löwith – che accusò Schmitt di “occasionalismo romantico” – non può pertanto essere un solido pilastro su cui fondare il suo impianto teoretico, essendo essa stessa infondata e slegata «dall’energia di un integro sapere sulle origini del diritto e della giustizia» (Löwith, 1994, p.134). Il decisionismo appariva in precedenza come il tentativo più realistico per creare ordine dal disordine, nell’epoca della secolarizzazione e dell’eclissi delle forme di mediazione: colui che s’impone sullo “stato d’eccezione” è il sovrano, che compie un salto dall’Idea alla Realtà. Quest’atto immediato e violento ha sul piano giuridico la stessa valenza di quella di Dio nell’ambito teologico, tanto da far affermare a Schmitt che «tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati» (Teologia politica, 1972, p.61). Solo nell’eccezione il problema della sovranità si pone come reale e ineludibile, nelle vesti di chi decide sull’eventuale sospensione dell’ordinamento, ponendosi così sia fuori che dentro di esso. Questa situazione liminale non è però metagiuridica: la regola, infatti, vive «solo nell’eccezione» (Ivi, p.41) e il caso estremo rende superfluo il normativo.

La debolezza di tale tesi sta nel fissarsi su una singola istanza, la “decisione”, che ontologicamente è priva di fondamento, in quanto il soggetto che decide – se si può definire tale – è assolutamente indicibile ed infondabile se non sul solo fatto di essere riuscito a decidere e manifestarsi con la decisione. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, decisionismo non è dunque sinonimo di soggettivismo: a partire dalla consapevolezza della sua ambiguità concettuale, Schmitt rivolge la sua attenzione verso la concretezza della realtà storica, che diviene il perno della sua produzione giuridica.
Un cambio di rotta dovuto pure all’erosione della forma-Stato, evidente nella crisi della ”sua” Repubblica di Weimar. Il decisionismo rappresentava un sostrato teorico inadeguato per l’ordinamento giuridico internazionale post-wesfaliano, in cui il tracollo dello Stato[1] spinge Schmitt a individuare nel popolo e nei suoi “ordinamenti concreti” la nuova sede del “politico”.

Arroccato su posizioni anti-universaliste, l’autore elabora tesi che vanno rilette in sostanziale continuità con quelle precedenti ma rielaborate in modo tale da non applicare la prospettiva decisionista a tale paradigma cosmopolitico.

2. Il modello di teoria giuridica che Schmitt approfondì in questa tappa cruciale del suo itinerario intellettuale è l’istituzionalismo di Maurice Hauriou e Santi Romano, che condividono la definizione del diritto in termini di “organizzazione”. La forte coincidenza tra organizzazione sociale e ordinamento giuridico, accompagnata alla serrata critica del normativismo, esercitò una notevole influenza su Schmitt, che ne vedeva il “filo di Arianna” per fuoriuscire dal caos in cui era precipitato il diritto dopo la scomparsa degli Stati sovrani.

Convinto fin dalle opere giovanili che fosse il diritto a creare lo Stato, la crisi irreversibile di quest’ ultimo indusse l’autore a ricercarne gli elementi essenziali all’interno degli “ordinamenti concreti”. Tralasciando la dottrina di Hauriou, che Schmitt studiò con interesse ma che esula da un’analisi prettamente giuridica in quanto fin troppo incentrata sul piano sociologico, è opportuno soffermarsi sull’insegnamento romaniano e sulle affinità tra questi e il tardo pensiero del Nostro. Il giurista italiano riconduceva infatti il concetto di diritto a quello di società – corrispondono al vero sia l’assunto ubi societas ibi ius che ubi ius ibi societas – dove essa costituisca un’«unità concreta, distinta dagli individui che in essa si comprendono» (Romano, 1946, p.15) e miri alla realizzazione dell’«ordine sociale», escludendo quindi ogni elemento riconducibile all’arbitrio o alla forza. Ciò implica che il diritto prima di essere norma è «organizzazione, struttura, posizione della stessa società in cui si svolge e che esso costituisce come unità» (Ivi, p.27).

La coincidenza tra diritto e istituzione seduce Schmitt, al punto da fargli considerare questa particolare teoria come un’alternativa al binomio normativismo/decisionismo, “terza via” di fronte al crollo delle vecchie certezze del giusnaturalismo e alla vulnerabilità del positivismo. Già a partire da Teologia politica il pensiero di matrice kelseniana era stato demolito dall’impianto epistemologico che ruotava intorno ai concetti di sovranità e decisione, che schiacciano il diritto nella sfera del Sein riducendo il Sollen a «modus di rango secondario della normalità» (Portinaro, 1982, p. 58). Il potere della volontà esistenzialmente presente riposa sul suo essere e la norma non vale più in quanto giusta, tramontato il paradigma giusnaturalistico, ma perché è stabilita positivamente, di modo che la coppia voluntas/auctoritas prevalga su quella ratio/veritas.

L’eclissi della decisione osservabile dai primi scritti degli anni ’30 culmina col saggio I tre tipi di pensiero giuridico, in cui al “nemico” scientifico rappresentato dall’astratto normativista Schmitt non oppone più l’eroico decisionista del caso d’eccezione quanto piuttosto il fautore dell’ “ordinamento concreto”, anch’esso ubicato nella sfera dell’essere di cui la normalità finisce per rappresentare un mero attributo, deprivato di quei connotati di doverosità che finirebbero per contrapporsi a ciò che è esistenzialmente dato. Di qui la coloritura organicistico-comunitaria delle istituzioni che Schmitt analizza, sottolineando che «esse hanno in sé i concetti relativi a ciò che è normale» (I tre tipi di pensiero giuridico, 1972, pp.257-258) e citando a mo’ di esempi modelli di ordinamenti concreti come il matrimonio, la famiglia, la chiesa, il ceto e l’esercito.

Il normativismo viene attaccato per la tendenza a isolare e assolutizzare la norma, ad astrarsi dal contingente e concepire l’ordine solo come «semplice funzione di regole prestabilite, prevedibili, generali» (Ibidem). Ma la novità più rilevante da cogliere nel suddetto saggio è il sotteso allontanamento dall’elemento decisionistico, che rischia di non avere più un ruolo nell’ambito di una normalità dotata di una tale carica fondante.

3. L’idea di diritto che l’autore oppone sia alla norma che alla decisione è legata alla concretezza del contesto storico, in cui si situa per diventare ordinamento e da cui è possibile ricavare un nuovo nomos della Terra dopo il declino dello Stato-nazione.
Lo Schmitt che scrive negli anni del secondo conflitto mondiale ha ben presente la necessità di trovare un paradigma ermeneutico della politica in grado di contrastare gli esiti della modernità e individuare una concretezza che funga da katechon contro la deriva nichilistica dell’età della tecnica e della meccanizzazione – rappresentata sul piano dei rapporti internazionali dall’universalismo di stampo angloamericano.

Sulla scia delle suggestioni ricavate dall’istituzionalismo, il giurista è consapevole che solo la forza di elementi primordiali ed elementari può costituire la base di un nuovo ordine.
nomosCS.jpgLa teoria del nomos sarà l’ultimo nome dato da Schmitt alla genesi della politica, che ormai lontana dagli abissi dello “stato d’eccezione” trova concreta localizzazione nello spazio e in particolare nella sua dimensione tellurica: i lineamenti generali delle nuove tesi si trovano già in Terra e mare del 1942 ma verranno portati a compimento solo con Il nomos della terra del 1950.

Nel primo saggio, pubblicato in forma di racconto dedicato alla figlia Anima, il Nostro si sofferma sull’arcana e mitica opposizione tra terra e mare, caratteristica di quell’ordine affermatosi nell’età moderna a partire dalla scoperta del continente americano. La spazializzazione della politica, chiave di volta del pensiero del tardo Schmitt, si fonda sulla dicotomia tra questi due elementi, ciascuno portatore di una weltanschauung e sviscerati nelle loro profondità ancestrali e mitologiche più che trattati alla stregua di semplici elementi naturali. Il contrasto tra il pensiero terrestre, portatore di senso del confine, del limite e dell’ordine, e pensiero marino, che reputa il mondo una tabula rasa da percorrere e sfruttare in nome del principio della libertà, ha dato forma al nomos della modernità, tanto da poter affermare che «la storia del mondo è la storia della lotta delle potenze terrestri contro le potenze marine» (Terra e mare, 2011, p.18) . Un’interpretazione debitrice delle suggestioni di Ernst Kapp e di Hegel e che si traduceva nel campo geopolitico nel conflitto coevo tra Germania e paesi anglosassoni.

Lo spazio, cardine di quest’impianto teorico, viene analizzato nella sua evoluzione storico-filosofica e con riferimenti alle rivoluzioni che hanno cambiato radicalmente la prospettiva dell’uomo. La modernità si apre infatti con la scoperta del Nuovo Mondo e dello spazio vuoto d’oltreoceano, che disorienta gli europei e li sollecita ad appropriarsi del continente, dividendosi terre sterminate mediante linee di organizzazione e spartizione. Queste rispondono al bisogno di concretezza e si manifestano in un sistema di limiti e misure da inserire in uno spazio considerato ancora come dimensione vuota. È con la nuova rivoluzione spaziale realizzata dal progresso tecnico – nato in Inghilterra con la rivoluzione industriale – che l’idea di spazio esce profondamente modificata, ridotta a dimensione “liscia” e uniforme alla mercé delle invenzioni prodotte dall’uomo quali «elettricità, aviazione e radiotelegrafia», che «produssero un tale sovvertimento di tutte le idee di spazio da portare chiaramente (…) a una seconda rivoluzione spaziale» (Ivi, p.106). Schmitt si oppone a questo cambio di rotta in senso post-classico e, citando la critica heideggeriana alla res extensa, riprende l’idea che è lo spazio ad essere nel mondo e non viceversa. L’originarietà dello spazio, tuttavia, assume in lui connotazioni meno teoretiche, allontanandosi dalla dimensione di “datità” naturale per prendere le forme di determinazione e funzione del “politico”. In questo contesto il rapporto tra idea ed eccezione, ancora minacciato dalla “potenza del Niente” nella produzione precedente, si arricchisce di determinazioni spaziali concrete, facendosi nomos e cogliendo il nesso ontologico che collega giustizia e diritto alla Terra, concetto cardine de Il nomos della terra, che rappresenta per certi versi una nostalgica apologia dello ius publicum europaeum e delle sue storiche conquiste. In quest’opera infatti Schmitt si sofferma nuovamente sulla contrapposizione terra/mare, analizzata stavolta non nei termini polemici ed oppositivi di Terra e mare[2] quanto piuttosto sottolineando il rapporto di equilibrio che ne aveva fatto il cardine del diritto europeo della modernità. Ma è la iustissima tellus, «madre del diritto» (Il nomos della terra, 1991, p.19), la vera protagonista del saggio, summa del pensiero dell’autore e punto d’arrivo dei suoi sforzi per opporre un solido baluardo al nichilismo.

Nel nomos si afferma l’idea di diritto che prende la forma di una forza giuridica non mediata da leggi che s’impone con violenza sul caos. La giustizia della Terra che si manifesta nel nomos è la concretezza di un arbitrio originario che è principio giuridico d’ordine, derivando paradossalmente la territorialità dalla sottrazione, l’ordine dal dis-ordine. Eppure, nonostante s’avverta ancora l’eco “tragica” degli scritti giovanili, il konkrete Ordnung in cui si esprime quest’idea sembra salvarlo dall’infondatezza e dall’occasionalismo di cui erano state accusate le sue teorie precedenti.


Da un punto di vista prettamente giuridico, Schmitt ribadisce la sentita esigenza di concretezza evitando di tradurre il termine nomos con “legge, regola, norma”, triste condanna impartita dal «linguaggio positivistico del tardo secolo XIX» (Ivi, p.60). Bisogna invece risalire al significato primordiale per evidenziarne i connotati concreti e l’origine abissale, la presa di possesso e di legittimità e al contempo l’assenza e l’eccedenza. La catastrofe da cui lo ius publicum europaeum è nato, ossia la fine degli ordinamenti pre-globali, è stata la grandezza del moderno razionalismo politico, capace di avere la propria concretezza nell’impavida constatazione della sua frattura genetica e di perderla con la riduzione del diritto ad astratta norma. Ed è contro il nichilismo del Gesetz che Schmitt si arma, opponendo alla sua “mediatezza”, residuo di una razionalità perduta, l’“immediatezza” del nomos, foriero di una legittimità che «sola conferisce senso alla legalità della mera legge» (Ivi, p.63).

GEOPOLITICA & TEORIA 27/05/2015 Ugo Gaudino

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

AMENDOLA A., Carl Schmitt tra decisione e ordinamento concreto, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1999

CARRINO A., Carl Schmitt e la scienza giuridica europea, introduzione a C. SCHMITT, La condizione della scienza giuridica europea, Pellicani Editore, Roma, 1996

CASTRUCCI E., Introduzione alla filosofia del diritto pubblico di Carl Schmitt, Giappichelli, Torino, 1991

ID., Nomos e guerra. Glosse al «Nomos della terra» di Carl Schmitt, La scuola di Pitagora, Napoli, 2011

CATANIA A., Carl Schmitt e Santi Romano, in Il diritto tra forza e consenso, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1990, pp.137-177

CHIANTERA-STUTTE P., Il pensiero geopolitico. Spazio, potere e imperialismo tra Otto e Novecento, Carocci Editore, Roma, 2014

DUSO G., La soggettività in Schmitt in Id., La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt, Arsenale, Venezia, 1981, pp.49-68

GALLI C., Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna, 2010

LANCHESTER F., Un giurista davanti a sé stesso, in «Quaderni costituzionali», III, 1983, pp. 5-34

LÖWITH K., Il decisionismo occasionale di Carl Schmitt, in Marx, Weber, Schmitt, Laterza, Roma:Bari,1994

PIETROPAOLI S., Ordinamento giuridico e «konkrete Ordnung». Per un confronto tra le teorie istituzionalistiche di Santi Romano e Carl Schmitt, in «Jura Gentium», 2, 2012

ID., Schmitt, Carocci, Roma, 2012

PORTINARO P. P., La crisi dello jus publicum europaeum. Saggio su Carl Schmitt, Edizioni di Comunità, Milano, 1982

ROMANO S., L’ordinamento giuridico, Firenze, Sansoni, 1946

SCHMITT C., Die Diktatur, Duncker & Humblot, Monaco-Lipsia, 1921, trad. it. La dittatura, Laterza, Roma-Bari, 1975

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ID., Der Begriff des Politischen, in C. SCHMITT et al., Probleme der Demokratie, Walther Rothschild, Berlino-Grunewald, 1928, pp. 1-34, trad. it. Il concetto di ‘politico’. Testo del 1932 con una premessa e tre corollari, in Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna, 1972

ID., Legalität und Legitimität, Duncker & Humblot, Monaco-Lipsia 1932, trad. it. Legalità e legittimità, in Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna, 1972

ID., Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens, Hanseatische Verlagsanstaldt, Amburgo, 1934, trad. it. I tre tipi di pensiero giuridico, in Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna, 1972

ID., Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Reclam, Lipsia 1942, trad. it. Terra e mare. Una considerazione sulla storia del mondo raccontata a mia figlia Anima, Adelphi, 2011

ID., Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum europaeum, Greven, Colonia 1950, trad. it. Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “ius publicum europaeum”, Adelphi, Milano, 1991

ID., Die Lage der europäischen Rechtswissenschaft, Internationaler Universitätsverlag, Tubinga, 1950, trad. it. La condizione della scienza giuridica europea, Pellicani Editore, Roma, 1996

NOTE:

[1] «Un termine apparentato ad un periodo storico: vale solo da Hobbes ad Hegel», come scrisse in una lettera a Norberto Bobbio, cfr. P. TOMMISSEN, introduzione a C. SCHMITT, Il concetto d’Impero nel diritto internazionale, Settimo Sigillo, Roma, 1996, p.6
[2] Ricchi altresì di significati simbolici espressi mediante le figure veterotestamentali del Leviathan e del Behemoth. Rovesciando l’impostazione hobbesiana, Schmitt sembra prediligere il secondo, mostro terrestre che in battaglia penetra nel territorio nemico anziché annientarlo come fa il soffocante Leviatano (Terra e mare, 2011, pp.18-19). L’analogia con lo scontro in atto tra Germania e paesi angloamericani è lampante (Chiantera-Stutte, 2014, pp.120-121).

mardi, 21 novembre 2017

Aristide Leucate parle de Carl Schmitt

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samedi, 11 novembre 2017

Tierra, Mar y Katechon

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Tierra, Mar y Katechon

Pueblos de la Tierra y pueblos del Mar

Ex: http://www.hiperbolajanus.com

El hombre asumió el principio de territorialidad desde el mismo momento que dejó de ser nómada, cuando en el lejano Neolítico comienza a establecerse en un territorio determinado, bajo comunidades de cierta amplitud, y con un código de valores y unas normas de convivencia que comienzan a forjarse de forma más o menos difusa, en un principio, y con mayor claridad en el devenir de los siglos. Así podríamos definir, de forma simple y concisa los inicios de la historia de la humanidad civilizada, en lo que nos remite al germen del poder político y del desarrollo de estructuras más o menos complejas que derivan en formas estatales de distinta naturaleza.
 
En este sentido es muy interesante destacar las reflexiones de Carl Schmitt al respecto, quien nos habla de una antítesis fundamental en la base del dominio político sobre el territorio. Se trata de un antagonismo que nos remite a dos tipos claramente diferenciados de entornos: por un lado la tierra y por el otro el mar. Estos dos elementos, que vemos claramente expuestos con posterioridad en la obra de Aleksandr Duguin, cuando nos habla del dominio de la tierra (telurocracia) y el dominio del mar (talasocracia), reúnen una serie de condicionamientos a nivel simbólico que reflejan naturalezas en contraste.
 
En el caso de la tierra nos remite a un elemento sólido, compacto y sobre el cual se pueden generar riquezas concretas, en forma de cultivos y cosechas o incluso proporcionarle una identidad al dividirlo, al ser susceptible de contener la impronta del hombre y de las actividades humanas en general. No en vano distintos estratos de asentamientos humanos se superponen sobre la tierra firme, y a día de hoy arqueólogos, paleontólogos o cualquier otro tipo de especialista puede conocer y estudiar la huella del pasado a través de los restos materiales contenidos en esa tierra. De modo que la tierra, en definitiva, es testigo y soporte de nuestras actividades, y por ese mismo motivo es posible establecer un dominio claro y efectivo sobre la misma, un dominio político sin lugar a dudas.
 
En el caso del mar ocurre exactamente lo contrario, y lo vemos reflejado en la ausencia de fronteras de ningún tipo, especialmente en lo que respecta a su superficie, donde se suceden interminables extensiones de un agua que, como elemento líquido, impide que la acción del hombre deje huella sobre la misma. Es muy complicado afirmar un principio de territorialidad sobre el mar, en la medida que es imposible compartimentarlo o dividirlo de manera alguna, de ahí que el dominio sobre los territorios marítimos haya sido, y siga siendo, un principio más difuso desde la perspectiva del derecho político.
 

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Los valores de la Tierra
 
Pero más allá de las cuestiones angulosas y complejas del derecho político, debemos contemplar dentro de la antítesis entre la tierra y el mar otro tipo de elementos que nos remiten al terreno más ideológico, lo cual supone un contraste que dentro de los posicionamientos de los teóricos más actuales del Eurasianismo vemos reflejados. Los valores ideológicos inherentes a la tierra, aquellos que representan el dominio político efectivo, se han traducido en una serie de ítems ideológicos muy claros: aquellos pueblos, imperios o civilizaciones basadas en el dominio de las masas y territorios continentales tienden a ser contrarios a las ideas vinculadas al progreso, a una concepción progresivo-evolutiva de la sociedad en los términos en los cuales es concebida por el liberalismo. El hecho de que la tierra no se atenga a los mismos criterios que el mar, que no sea maleable del mismo modo que lo son los océanos y que cualquier modificación se realice sobre un espacio fijo, nos habla de valores conservadores, contrarios a cualquier idea o principio de Devenir. En este caso debemos hablar de valores tradicionales, heroicos y espirituales que nos remiten a principios fuertemente enraizados en las conciencias de sus pobladores.
 
Del mismo modo la posesión y dominio de la tierra nos remite a un principio de Personalidad, que es el que alude al desarrollo no solo de un derecho privado, sino a la propia formación de un sentido aristocrático y vertical del poder. No en vano, en las sociedades tradicionales la existencia de una aristocracia terrateniente y la fundación de su poder sobre el dominio de posesiones territoriales ha sido fundamental. Respecto al tema de la Personalidad es importante destacar que ha sido uno de los elementos que Evola señala como uno de los procesos disolutivos propios de la Modernidad. La Personalidad, como afirmación de esos valores fuertes, desde la integridad y armonía interior son fundamentales para entender la concepción antropológica existente en este tipo de sociedades. Del mismo modo la Personalidad nos remite a la Persona, vinculada a un principio de identidad individual, que no individualista, dentro de la colectividad, que es otra de las referencias fundamentales defendida por los valores de la Tierra. El sentido comunitario-orgánico tan propio de las generaciones que nos precedieron, depositarias de valores agrarios en referencia a la vital importancia que hablábamos al comienzo, y es que aquellos que mantienen un vínculo directo con la tierra y ligan su existencia a ésta se impregnan de los valores duraderos y firmes que ésta representa. Del mismo modo la estructuración de una comunidad de este tipo entiende la necesidad de que cada una de las personas que la forman represente un rol o una función determinada, es lo que nos remite a la reforma gregoriana del siglo XIII, la que nos habla de la trifuncionalidad de la sociedad cristiana (los que trabajan la tierra, los que hacen la guerra y los que rezan), lo que implica un desarrollo vertical de la estructura de poder, una verdadera jerarquía en la que el dharma de cada persona establece el lugar que se ocupa en el conjunto.
 

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Los valores del Mar
 
Dentro del conglomerado ideológico que define los valores del mar hallamos principios e ideas diametralmente opuestos. El mar ignora fronteras y desconoce todo principio de unidad, como decíamos su estado líquido lo condena a la permanente indeterminación. Es imposible fijar fronteras físicas o moldear el paisaje del mismo de una forma duradera. De hecho, dentro de las concepciones tradicionales, el agua se relaciona con el estado previo a la Creación y al sentido de lo Primordial, es la referencia a la protomateria, a lo increado o lo que permanece en el caos o en la no-creación, con los cual alude a un principio oscuro. Las aguas nos remiten a lo preformal y el hecho de sumergirse en las aguas nos habla de muerte y disolución. Con lo cual los valores vinculados al mar nos remiten a valores que podríamos considerar anti-tradicionales. De hecho, y es algo muy significativo, han sido pueblos talasocráticos, que han fundamentado su poder sobre el dominio marítimo los que han construido la modernidad. Los países anglosajones, y más concretamente Gran Bretaña, han sustentado las bases de sus imperios mundiales sobre el dominio de los mares. En este caso prevalecen valores cosmopolitas, aquellos que hablan de la ausencia de vínculos orgánicos y comunitarios, así como el predominio de un individualismo disgregador, vinculado a intereses materiales y a la ausencia de principios y valores fuertes. Por este motivo los pueblos anglosajones han desarrollado un tipo de moral utilitarista y pragmática, donde han sido más importantes los efectos prácticos de las acciones, los beneficios dentro de un plano material, más que cualquier otro principio o valor político-ideológico inquebrantable. El cosmopolitismo y la reivindicación del individuo son dos procesos disgregativos de la modernidad. Es importante el matiz lingüístico y terminológico que se deriva del concepto «individuo», que deja entrever ese principio abstracto e indeterminado frente a la Persona y la Personalidad inherentes a los valores de la Tierra, y es que el individuo cosmopolita, materialista y pragmático es también un relativista moral, que carece de esa unidad y fortaleza interior propia de quienes integran la perspectiva terrestre, es un accidentalista y un oportunista, enemigo de cualquier valor absoluto y principio trascendente. No es casualidad que la democracia ateniense llegase a su punto de mayor apogeo con el triunfo de la talasocracia, que permitió el acceso de esclavos y metecos al cuerpo social bajo criterios materialistas y utilitaristas y bajo una concepción de la sociedad totalmente horizontal.

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Sobre la idea de Katechon en Carl Schmitt

La interpretación clásica de Katechon

Está claro que los valores del Mar se han terminado por imponer y la Modernidad se ha fraguado al amparo de este tipo de civilización de carácter descendente. Actualmente, bajo el periodo histórico en el que vivimos, en el contexto de la Posmodernidad, nos hallamos en un punto de encrucijada, en lo que no es un momento exclusivo a lo largo del devenir histórico. Obedece a la lógica de los ciclos históricos, describiendo movimientos elípticos, de ascenso, con sus etapas de apogeo, y de descenso con etapas de oscuridad e inversión. Hay un concepto, que aparece referenciado en la obra de Carl Schmitt que resulta muy interesante desde la perspectiva teológico-política y filosófica, la cual nos ha permitido establecer una conexión entre la historia como un fenómeno factual, fundada en los hechos, y el propio acaecer de los acontecimientos humanos. Se trata del concepto de Katechon, al que se hace referencia originariamente en el siguiente pasaje bíblico en el que se describen las tres etapas que impiden la llegada del Anticristo:
Porque el misterio de la iniquidad ya está en acción, sólo que aquel que por ahora lo detiene, lo hará hasta que él mismo sea quitado de enmedio. Y entonces será revelado ese inicuo, a quien el Señor matará con el espíritu de su boca, y destruirá con el resplandor de su venida;...
(2 Tesalonicenses 2-7)

En este fragmento, San Pablo parece referirse a una especie de corriente subterránea que recorre la historia y que caracteriza como «el misterio de la iniquidad», por el mal y por la acción del Anticristo. No obstante la acción contaminante y envilecedora del mal aparece como contrarrestada por otra fuerza misteriosa, la cual es citada de forma neutra, «como aquello que impide» y en género masculino como «aquel que por ahora lo detiene». Este principio inicuo está destinado a manifestarse en toda su trágica virulencia, sin embargo, está condenado a ser derrotado y eliminado, a ser «quitado de enmedio». A continuación San Pablo añade que «Jesucristo lo destruirá con el aliento de su boca» (2 Tesalonicenses, 2-8).
 
La interpretación de la exégesis cristiana es una tarea hartamente complicada, y más si atendemos al fragmento anteriormente citado. Muchas han sido las teorías que han tratado de aportar luz a las palabras de San Pablo pero, sin embargo, los propios Padres de la Iglesia han tratado de desafiar el misterio de las palabras paulinas para adentrarse en una interpretación que comprende una vertiente teológico-política. Se trataría de una fuerza misteriosa que desde tiempos del Imperio Romano y en lo sucesivo, especialmente durante la Edad Media y en el camino hacia la Modernidad actual, habría contenido una serie de desgracias y calamidades que podrían haberse materializado con las profecías de Daniel y el Apocalipsis y que habrían precedido al momento de la Parusía de Cristo. El Katechon nos aparece como una categoría que Carl Schmitt ha utilizado para aplicarla a las propias dinámicas de la política internacional y en la función de las ideologías y las potencias liberales, en aquellas catalogadas anteriormente, como parte de la ideología del Mar.
 
La interpretación según Carl Schmitt
 
De hecho, el propio Schmitt aplica la categoría de Katechon a los Estados Unidos en el momento en el que se produce su entrada en la Segunda Guerra Mundial en el lado de los ingleses, estableciéndose la adhesión de los norteamericanos a la estrategia y herencia talasocráticas de éstos últimos. En este sentido encontramos el concepto de Katechon, en su definición más primaria, como un obstáculo a toda transformación razonable y a todo crecimiento sano. El ensayo de Carl Schmitt donde aparecen claramente formuladas y sistematizadas estas ideas lo encontramos en El nomos de la Tierra en el derecho de Gentes del Jus Publicum Europaeum, donde se establecen una relación entre el elemento jurídico y la Tierra, de modo que entre ambos media una digresión sobre el Imperio como Katechon en la respublica christiana medieval. De hecho este principio nos aparece como una especie de fuerza capaz de mantener en estado de suspensión la idea escatológica del fin del mundo en el ámbito del acontecer humano mediante la creación de una gran potencia histórica. Esa idea de Imperio emerge consagrada o ungida bajo una gran misión histórica, en una especie de contexto de salvación escatológica que permitía, en el ámbito del mundo medieval, establecer un principio de continuidad con el propio Imperio Romano. A partir de entonces vemos cómo el concepto bíblico de Katechon se hace más profano y pierde las raíces místicas que lo vinculan directamente a la idea del fin de los tiempos y la venida del Segundo Reino de Cristo.
 

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De algún modo se produce una transformación del concepto de Katechon durante el Medievo, y esa fuerza misteriosa que, atendiendo a la etimología del término griego τὸ κατέχον que significa «retener», «agarrar» o «impedir», con unas connotaciones dentro del ámbito de lo trascendente, de esa fuerza misteriosa, que a través de un fundamento escatológico vinculado a la propia idea de imperio, le era confiada una misión de acuerdo con la visión metapolítica y metafísica de los Padres. A partir de la Edad Media esta fuerza misteriosa, que «retenía», pasa de tener una función de conservación y reacción a presentar un principio de legitimación «activista» al materializarse mediante un proyecto mundano y político, en lugar de la espera de la venida del Reino de Cristo, sometiendo las prerrogativas de tal reino a la relativización del poder mundano. De hecho, y como ocurre en la citada obra, Schmitt nos habla del Katechon como la principal fuerza que desde el Imperio Romano, y con su continuidad a través de la respublica Christiana medieval se produce una transición en la que esa fuerza histórica de naturaleza extraordinaria y sobrehumana experimenta la citada transformación.
 
No obstante, y al margen de la utilización del término en el contexto medieval, tenemos otras aplicaciones que el propio jurista alemán intenta aplicar el concepto de Katechon a otros contextos diferentes a aquellos de la teología política del Imperio, especialmente en los últimos años de la década de los cuarenta, cuando las potencias del Eje han sido derrotadas, donde el concepto adquiere una significación histórica e ideológica que se opone a la deriva técnica y de planificación de tiempos inestables vinculada a la victoria del liberalismo anglosajón y del marxismo soviético en la Segunda Guerra Mundial. Una alianza entre elementos técnicos, adaptados a las necesidades del mercado y las nivelaciones socialistas. Hay una visión apocalíptica de ese mundo de posguerra, en la cual parece transfigurarse una visión de este pensamiento como sufrimiento y agonía, en una especie de prefiguración del trágico destino de la cruz, como factores caracterizantes de todo Katechon y está vinculado a un fin determinado y que está en plena consonancia con el propio misterio de la salvación dentro de la doctrina cristiana. Forma parte de un diseño divino cuyos contornos solamente nos serán visibles al final de lo tiempos y frente al cual únicamente cabe la confianza y la esperanza.
 
A partir de este contexto de posguerra el katechon aparece asociado a los vencidos, a aquellos que no quieren renunciar a escribir la historia pese a sus condiciones de extrema debilidad y que, incluso, no renuncian a la posibilidad de combatir a las fuerzas que emergen como vencedoras del conflicto, las que construyen el Nuevo Orden Mundial en Yalta, y que representan las fuerzas de la planificación técnico-económica que suponen un precipitarse del mundo hacia un activismo nihilista, la sociedad de masas. Se trata de un intento de resistir que nos puede recordar a la postura evoliana que vemos en Orientamenti, en la que la resistencia interior aparece como una estrategia, aunque más de replegamiento y defensa pero sin renunciar al contraataque. Schmitt habla de la «crucifixión» como parte de la naturaleza y experiencia humana en la historia y sobre la función y el modelo que representa para el cristiano la crucifixión de Jesús. Su muerte como esclavo, por un poder arrogante y autodivinizado se convierte, para Schmitt, en el símbolo de la persecución del enemigo contra los vencidos en la guerra justa. Todo ello en contra del principio racional y caballeresco en la relación amigo-enemigo, dentro del concepto de justus hostis, que representa respecto a todos los fanáticos fautores del justum bellum.
 

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A partir de la sistematización del nomos de la tierra comienza una fase en la que Schmitt aprecia cómo van produciéndose unos antagonismos, y en términos de confrontación, entre el pensamiento histórico cristiano y las filosofías de la historia de la era de la técnica, bajo la idea típicamente moderna y prometeica como un obstáculo providencial en relación al misterio conectado con el camino en el devenir temporal de la humanidad. Se trata de la acción del katechon vinculada a la promoción de una concepción política vinculada a concreción terrestre del orden y del derecho y de los valores orgánico-comunitarios. Esta fuerza misteriosa no aspira a convertirse en una fuerza dúctil y maleable en manos de la humanidad, sino que su misterio se funda sobre la idea de la aceptación de los límites humanos. Tal aceptación implica también que las pretensiones hegemónicas de la nueva humanidad surgida a partir de 1945, en su configuración nihilista y tecnocrática del poder mundial se encuentran sometidas a un límite, lo cual también supone una esperanza de cara a la redención frente al inmanentismo, y el consumismo hedonista de la nueva civilización. De modo que aquí Katechon implica una apelación a una forma de actuar alternativa a las dinámicas aparentemente en confrontación, pero en realidad solidarias, de las ideologías «redentoras» del capitalismo y el comunismo bajo las cuales subyace una peculiar interpretación de la historia.
 
Las connotaciones y prolongaciones del concepto katechónico podrían dar lugar a innumerables ideas e interpretaciones dentro del campo del derecho, la filosofía o la geopolítica que traspasarían nuestros objetivos y pretensiones, que no van más allá de mostrar un elemento interesante dentro de los diferentes recursos ideológicos e interpretativos que el lúcido pensamiento del eminente jurista alemán Carl Schmitt, puede aportarnos.

lundi, 23 octobre 2017

Le katechon selon Carl Schmitt: de Rome à la fin du monde

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Le katechon selon Carl Schmitt: de Rome à la fin du monde

Le retour du Christ sur Terre, la parousie, ne surviendra pas tant que le katechon​, cette figure « ​qui retient » le déchaînement du mal, agira efficacement. C’est ce qu’affirme l’apôtre Paul dans sa seconde épître aux Thessaloniciens. Si le texte biblique continue de faire débat chez les théologiens,​ ​certains​ ​pensent​ ​avoir​ ​identifié​ ​cette​ ​mystérieuse​ ​figure.

L’idée du katechon (κατέχων), que l’on pourrait traduire par « rétenteur » ou « retardateur », est largement ignorée des chrétiens eux-mêmes. Saint Paul s’adressant aux Thessaloniciens affirme pourtant, s’agissant de l’Antéchrist : « Maintenant vous savez ce qui le retient, de sorte qu’il ne se révélera qu’au temps fixé pour lui. Car le mystère d’iniquité est déjà à l’œuvre ; il suffit que soit écarté celui qui le retient à présent » (II Thessaloniciens 2, 6-7). Puissance qui empêche l’avènement du mal absolu et la fin du monde, le katechon atténue profondément l’eschatologie chrétienne dans son acception la plus fataliste, qui tend à considérer que le cours de l’histoire est tout entier entre les seules mains de la Providence.

Cette puissance qui retient semble devoir s’analyser en une entité théologico-politique. Vraisemblablement inspirée par Dieu pour la défense du bien chrétien, mais néanmoins libre des ses décisions comme l’est toute figure de la Création, elle réconcilie le déterminisme eschatologique avec une conception sphérique de l’histoire qui postule que l’homme, par l’action politique fondatrice de tout ordre, joue un rôle décisif dans le cours des événements et la lutte contre le règne du mal. C’est ce que notait Carl Schmitt, dernier grand penseur du katechon, lorsqu’il écrivait que « la foi en une force qui retient la fin du monde jette le seul pont qui mène de la paralysie eschatologique de tout devenir humain jusqu’à une puissance historique aussi imposante que celle de l’Empire chrétien des rois germaniques. » Cette conception schmittienne du katechon est issue du Nomos de la Terre, paru en 1950. Elle nous semble plus aboutie que celle utilisée en 1944 dans Terre et Mer, plus vague et générique, qui a pu conduire certains commentateurs à identifier le katechon à toute puissance étatique résistant à la marche forcée du monde vers une hypothétique anomie globale.

Le katechon est donc mû par une volonté propre et n’est pas la marionnette de Dieu sur terre. Il est une puissance décisive dont l’action concrète fonderait un ordre conforme à l’idée chrétienne du bien là où le désordre tendrait à s’insinuer. Chez Schmitt, le bien n’est pérenne que dans l’ordre, et la capacité à le conserver en décidant du cas d’exception est au souverain ce que le miracle est à Dieu. Cela suppose d’abord que la « vraie foi » soit établie et transmise, pour que l’idée chrétienne du bien contenue dans le décalogue et les « lois non écrites » puisse être poursuivie et défendue efficacement. L’institution de l’Église catholique romaine, vecteur et garante du dogme, est donc naturellement une composante du katechon selon Carl Schmitt, reprenant à son compte l’idée développée par nombre de théologiens et de Pères de l’Église. Mais parce que le katechon ne saurait se réduire à une autorité spirituelle, et suppose aussi la force d’action concrète du pouvoir politique, c’est plus précisément dans le Saint Empire romain germanique que le juriste en voyait une incarnation historique.

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Une​ ​figure​ ​duale

L’Église latine est une institution indéfiniment ancrée dans le sol romain, comme une garantie de sa permanence, pour fonder un ordre à vocation universelle. Et l’association au sein de l’Empire d’Occident des deux ordres distincts de l’imperium et du sacerdotium, dévolus respectivement à l’Empereur et au Pape, formait une authentique communauté dans la Respublica Christiana. Ordre éternellement chrétien, puisque bâti sur la pierre angulaire de l’Église (le tombeau de Pierre) et sur lequel le mal, se propageant dans le monde, finirait toujours par buter.

C’est donc véritablement une figure duale, à la fois théologique et politique, que celle du katechon. Et si elle apparaît clairement dans la Respublica christiana, c’est justement par la distinction formelle de ces deux ordres d’imperium et de sacerdotium, qui renvoie à la distinction entre un pouvoir (potestas) et une autorité qui le légitime et le transcende (auctoritas), là où les sociétés traditionnelles réunissaient pouvoir temporel et autorité spirituelle sous la figure unique du roi-prêtre. Cet imperium avait d’ailleurs acquis une dimension proprement chrétienne, se définissait comme le commandement utile à maintenir l’ordre chrétien, et s’ajoutait aux prérogatives des rois chaque fois qu’il était nécessaire. Un évènement historique important est situé au XIe siècle, date de la réforme grégorienne au cours de laquelle l’Église s’affirme, avec force, indépendante et supérieure aux pouvoirs temporels. Mais cette distinction n’a pas immédiatement provoqué une opposition frontale, ni même l’exclusion mutuelle des deux domaines. Il y avait au contraire, initialement, la recherche d’une synergie, d’une conciliation, que Carl Schmitt résume dans l’expression de « lutte pour Rome ». 

Or cette conception de la « puissance qui retient » ne pouvait valoir que dans un monde où tous les chemins menaient à Rome, où toute l’Europe chrétienne regardait vers le tombeau de Pierre comme vers le centre du monde et espérait la bénédiction de ses décisions politiques par les autorités romaines. L’autorité spirituelle ressemblait alors à un rempart au pouvoir politique, objet des passions potentiellement destructrices et contraires à l’ordre chrétien établi d’après Rome. Or, de ce romanisme médiéval concentrique, où le pouvoir cherchait à s’adjoindre l’autorité de l’Église, l’Europe a basculé vers un romanisme excentrique. C’est désormais à l’Église romaine de gagner le monde par ses propres moyens résiduels, d’imposer son bien par le bas, dépourvue de son autorité politique depuis l’émergence de la conception moderne et exclusive de la souveraineté. L’imperium et le sacerdotium, jusqu’alors distingués mais néanmoins liés, sont désormais deux ordres qui tendent à s’exclure mutuellement. L’État s’est divinisé.

L’Église se voit ainsi exclue des affaires politiques, contrainte à se plier aux exigences d’un monde où les États comptent sans elle. Si l’on peut certes reconnaître aux papes contemporains un rôle politique certain, celui-ci ne semble plus que ponctuel et exceptionnel et relève de l’influence bien plus que de la décision. On pense notamment à l’anticommunisme de Jean-Paul II et au soutien qu’il apporta à Solidarnosc en Pologne, peu avant l’implosion du bloc soviétique.

Symboliquement, la métamorphose de l’Église est acquise depuis le Concile « Vatican II », au cours duquel fut adopté l’usage des langues vernaculaires au détriment du latin dans les célébrations. L’Église qui s’adressait au monde entier dans un même langage s’est comme dissoute dans les particularismes. Elle est devenue une institution mondaine parmi d’autres, et sa lutte ne peut plus guère être menée en association avec les pouvoirs politiques en qui Carl Schmitt voyait les pierres fondatrices et les garanties de tout ordre. Non seulement les dimensions théologique et politique du katechon tendent à s’exclure, mais l’ordre romain du sacerdotium semble considérablement affaibli face à un imperium hypertrophié et dépourvu de sa dimension chrétienne ancienne. Pour bien des dépositaires du pouvoir politique, la parole de l’Église semble compter autant que celle d’une quelconque organisation non gouvernementale.

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Rome​ ​éternelle​ ​ou​ ​troisième​ ​Rome​ ​?

Certes, il convient de nuancer une approche trop européocentrique de la figure du katechon, le monde chrétien ne se limitant ni à Rome ni à l’Occident, et l’Église catholique latine n’étant pas la seule Église au monde. Cependant, sa forme historique sui generis lui a certainement confié une légitimité particulière. Et c’est l’Empire d’Occident qui conserva le lien géographique avec le tombeau de Pierre, assise tellurique déterminante aux yeux de Carl Schmitt et de nombreux théologiens occidentaux, car elle permettait un rayonnement universel puissant, une « juridiction universelle » partant d’un seul et unique centre de gravité. L’Église orthodoxe, en revanche, s’est développée dans une relation toute différente à la localité, témoignage d’un enracinement nécessairement moins imposant symboliquement, voyant le siège de Pierre en celui de chaque évêque.

L’idée que le katechon serait aujourd’hui incarné par la Russie orthodoxe fleurit pourtant ça et là depuis une dizaine d’années, notamment dans les courants eurasistes, comme une réminiscence de l’idéal d’une « troisième Rome » incarnée par Moscou. Le Patriarche Cyrille de Moscou, à la tête de l’Église orthodoxe russe, affirme régulièrement l’importance de la foi comme guide essentiel à la conduite des affaires politiques. Certes, il reproche aux sociétés d’Occident de s’estimer capables de fonder un ordre sain sur la négation de la chrétienté. De son côté, le gouvernement russe actuel manifeste ostensiblement son identité chrétienne. Il n’y a cependant là rien de comparable avec l’articulation historique de l’imperium et du sacerdotium, ni avec le rayonnement universel de l’Église romaine d’autrefois.

Ironie du sort, c’est peut-être aujourd’hui l’Organisation des Nations Unies qui constitue l’autorité la plus universelle et qui continue le mieux l’autorité autrefois dévolue au Pape ! Un exemple parmi tant d’autres : la colonisation des Amériques par l’Espagne était fondée juridiquement sur un mandat de mission pontificale, tout comme l’ONU délivre aujourd’hui des mandats fondant des opérations dites de « maintien de la paix ». L’arbitrage moral quant à l’emploi de la violence armée par les puissances dominantes se fait au sein de cette organisation, au nom de principes aussi généraux que généreux. On a longtemps justifié les conquêtes et les pillages par la nécessité de répandre le christianisme sur les terres inexplorées, puis par celle de « civiliser » les « sauvages ». Désormais, on apporte les Droits de l’Homme. Ce que l’on appelait le droit des gens, le droit international applicable aux étrangers non chrétiens, se retrouve aujourd’hui sous l’appellation pudique de « droit international humanitaire », autrement appelé droit de la guerre. Mais l’Évangile ne figurant pas parmi les références de l’Organisation, et l’ordre qu’elle fonde ne semblant pas inspiré par les exigences chrétiennes, elle ne serait qu’une sorte de katechon laïque, de toute façon dépendante des États souverains. Or, purement théologique, un katechon n’aurait pas le pouvoir de fonder un ordre social ; purement politique, il serait condamné à dévier.

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Le katechon sous sa forme historique, tel que Carl Schmitt l’a conçu, est-il alors une figure morte ? Elle semble éteinte, et les métamorphoses juridiques et politiques l’ont certainement mené à prendre une forme nouvelle qui peine à se dévoiler. Mais une menace plane : ne le voyant plus, l’Occident ne semble plus croire au katechon, et donc ne plus se penser capable, et encore moins destiné, à l’incarner. Il faut dire que les prophéties hégéliennes modernes de la « fin de l’Histoire » et de l’avènement d’un « État universel et homogène » (Kojève) idyllique vont encore bon train, privant l’idée du katechon de sa raison d’être. C’est d’abord de son urgente nécessité qu’il faudra se convaincre pour pouvoir l’incarner à nouveau. Suivant l’intuition schmittienne, c’est certainement dans la redécouverte de la doctrine chrétienne véritable et ordonnée que se trouve la vitalité du katechon, ce qui conforte aujourd’hui les conservateurs dans l’Église face à un Pape controversé et souvent décrit comme progressiste. Mais se pose encore la question de la portée politique de cette doctrine dans le monde contemporain. Il n’y a plus guère de pieux monarque qui règne, et les souverainetés déjà diluées dans les foules démocratiques se partagent désormais entre une infinité de monstres bureaucratiques. Si le diable est celui qui divise, le katechon ne peut sans doute se retrouver que dans une convergence théologico-politique, une tendance à la réunification des deux ordres en équilibre.

mardi, 29 août 2017

Du "populisme" d'après Laclau, Mouffe, Errejon.

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Du "populisme" d'après Laclau, Mouffe, Errejon

Par

Blog : Le blog de Vincent Présumey

Avertissement d' "euro-synergies": ce texte émane d'une voix de gauche qui s'oppose à l'utilisation par les populistes de gauche de l'oeuvre de Carl Schmitt. Nous affichons cet article pour montrer les arguments de cette gauche radicale qui refuse aujourd'hui, pour de bonnes et de mauvaises raisons, les théories émises par les idéologues de Podemos ou d'autres mouvements postmarxistes.Nous supposons que nos lecteurs pourront faire la part des choses: rendre à Marx ce qui revient à Marx, à Gramsci ce qui revient à Gramsci et à Schmitt ce qui revient à Schmitt. Coïncidentia oppositorum !

* * *

Le "populisme" est à la mode. Voici quelques mois, beaucoup d'adhérents de la "France insoumise" s'insurgeaient contre l'emploi de ce terme à l'égard de leur mouvement, croyant qu'il s'agissait de les amalgamer au Front National, dans la continuité des attaques que nous tous, militants de gauche opposés aux normes de la dite "construction européenne", avons eu à connaître depuis des années. Mais ils ont fini pour la plupart d'entre eux par réaliser que leur chef se réclame du dit "populisme" depuis un certain temps déjà, en tant qu'axe stratégique pour les présidentielles puis pour son mouvement, et leur réponse a changé : elle consiste à dire que les critiques ignorent la profondeur analytique et conceptuelle de la chose, laquelle renvoie aux oeuvres de deux supposés grands penseurs, l'un, décédé, l'argentin Ernesto Laclau, l'autre étant l'universitaire belge Chantal Mouffe.

Un petit livre (rouge ! - aux éditions catholiques du Cerf) est devenu le bréviaire de pas mal d'entre eux, et il est vrai que Construire un peuple, Pour une radicalisation de la démocratie, entretiens entre la théoricienne du "populisme" C. Mouffe et son principal promoteur dans Podemos (1), Inigo Errejon, est réussi au point de vue de la vulgarisation : il donne une version abrégée des conceptions principales de ce courant. Il me servira donc ici de point de départ pour une rapide analyse de ses principaux aspects idéologiques.

Chantal Mouffe et l'essentialisme.

Chantal Mouffe présente comme le résultat de profondes recherches sociologiques et politologiques un certain nombre de truismes que le bon sens connaît fort bien depuis toujours : "les identités politiques ne sont pas données, elles ne répondent pas à une nature par essence, mais sont constamment en construction." Ces formules s'opposent, selon elle, au "marxisme" et aux "marxistes" ainsi qu'à la "social-démocratie". La grande critique du "marxisme" à cet égard a été faite par elle-même et Ernesto Laclau en 1985 dans Hégémonie et stratégie socialiste (2). Le "marxisme" avait "une conception essentialiste qui faisait de l'existence des identités politiques le préalable à leur articulation dans le discours.", à savoir : "un "essentialisme de classe", dans lequel les identités politiques dépendaient de la position de l'acteur social dans les rapports de production, rapports qui déterminent sa conscience."

Dans un premier temps on pourrait penser qu'est visé le déterminisme économique, à l'oeuvre notamment dans le "marxisme" officiel de la seconde Internationale au début du XX° siècle , repris sous une forme aggravée dans les formulations idéologiques liées au stalinisme, déterminisme qui peut s'autoriser de telle ou telle formule de Marx mais certainement pas de l'ensemble de son oeuvre. Seuls deux "marxistes" trouvent grâce aux yeux de C. Mouffe, en tant qu'"hérétiques" supposés et pas en tant que "marxistes", Gramsci et Lukacs. Qu'aussi bien chez Lénine que chez Trotsky ou Rosa Luxembourg la place de l'action politique consciente contredise explicitement tout déterminisme économique semble lui avoir échappé (cette pauvre R. Luxembourg avait bien fait quelques efforts, explique-t-elle, mais "sans y arriver vraiment" !).

Le déterminisme économique, en fait, n'est en rien la cible de Chantal Mouffe. Ce n'est pas tant la supposée "dépendance" de l'identité politique envers les rapports de production qui est appelée par elle "essentialisme", ni une formation de la conscience qui serait directement conditionnée par la place de l'individu dans ces rapports. Ces visions schématiques "marxistes" ne font que lui faciliter la tache, mais ce ne sont pas elles qu'elle vise. C'est la relation entre rapports sociaux et identités politiques, c'est l'idée que les forces politiques correspondent évidemment à des intérêts sociaux pas forcément immédiatement conscients, qui est taxée d' "essentialisme".

Il nous faut faire une petite parenthèse sur ce terme. C. Mouffe en effet, procède à une inversion – Marx aurait peut-être dit : une inversion idéologique ! - dans son emploi.

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Qu'est-ce que l' "essentialisme" ? Depuis Aristote on oppose l'essence d'une chose à ses accidents, mais ceci n'est une opposition que pour les interprètes superficiels - déjà chez Aristote, le nécessaire n'existe pas sans le contingent ni l'essence sans les accidents. La véritable opposition est celle du nominalisme et de l'essentialisme et elle a été exposée et explicitée notamment par les biologistes. "Le chat a des poils parce qu'il est un mammifère" est une proposition banale, essentialiste sans le savoir : le concept de mammifère ne préexiste pas ontologiquement aux individus (3). Dans une démarche scientifique, reposant sur le réalisme – le monde existe indépendamment et antérieurement à ma perception -, il faut se garder, avec une vigilance en éveil, de tout essentialisme, de toute conception centrée sur une norme idéale, de toute confusion entre science et valeur.

Une très belle critique de l'essentialisme se trouve sous la plume de Marx, dans la Sainte Famille (1844) : à la pomme et à la poire réelles que je mange, est substitué le concept de fruit, et pomme et poire deviennent des manifestations du "fruit absolu", chaque chose individuelle devenant l'incarnation d'une abstraction, d'une essence.

L'essentialisation, explicite ou implicite, de l'adversaire ou du contradicteur, est un phénomène courant qui constitue le principal obstacle aux débats argumentés : untel dit ceci parce qu'il est cela, un "marxiste", un "libéral", ou, pire, en raison de sa "nature", de classe, ethnique, de genre, etc (la pensée essentialiste est obligatoire dans le racisme). Ceci évite ou empêche de considérer ce que dit effectivement untel. La critique de l'essentialisme recoupe donc la critique de l'idéalisme et de l'institution d'abstractions figées à titre de modèles explicatifs, mais elle va au delà car elle critique aussi l'explication essentialiste des pensées, opinions et identités elles-mêmes : elle permet un matérialisme non dogmatique.

Il s'agit de rompre avec la classe ouvrière.

Ce que C. Mouffe, elle, dénonce comme "essentialisme" constitue précisément le contraire de l'essentialisme, à savoir le fait d'écarter les explications toutes faites sur les idées des uns et des autres par la référence à un quelconque mot en "isme" permettant de les classifier dans des catégories figées, pour pouvoir accomplir l'effort de prise en compte des réalités sociales et individuelles (les deux allant toujours de pair), des rapports matériels des individus entre eux et avec le monde, non pour ériger ces rapports en une nouvelle "essence", mais pour approcher au plus près la réalité concrète mouvante et contradictoire. Elle essentialise, par contre, le "marxisme", et avec lui la "social-démocratie", leur adressant ce reproche central qui pour elle résume, en fait, leur soi-disant "essentialisme" :

"Leur théorisation était différentes, mais finalement les deux courants ["marxisme" et "social-démocratie"] abordaient le socialisme en fonction des demandes de la classe ouvrière." (je souligne, VP).

La "social-démocratie", ce sont les partis socialistes, social-démocrates, travaillistes, ayant largement dérivés vers le libéralisme. Le "marxisme", c'est ici ce qui est censé s'être situé "à gauche" des précédents, soit, principalement, les partis communistes et apparentés. Pour Chantal Mouffe leur grand défaut était de procéder "en fonction des demandes de la classe ouvrière" (sic). Althussérienne orthodoxe jusque là (et peut-être bien réelle "marxiste essentialiste" ! ), elle aurait pris conscience du problème en raison de son engagement féministe londonien. Sans doute. On notera la double essentialisation a-critique à laquelle elle procède.

Premièrement, les forces politiques issues de la social-démocratie et du stalinisme (qu'il soit permis d'appeler ainsi les catégories essentialisées de C. Mouffe que sont "la social-démocratie" et "le marxisme", on se rapproche ainsi, d'un cran, du réel), représentaient bel et bien la classe ouvrière, et c'est bien là, deuxième point central, ce qu'il leur est reproché.

Exit tout questionnement sur la bureaucratie, la confiscation de la représentation, l'Etat "soviétique", etc. C. Mouffe en rompant avec ce qu'elle considérait comme son "marxisme", n'a pas à faire l'effort de critiquer le rapport politique de subordination et d'instrumentalisation, ni donc de se questionner sur les forces sociales en jeu, des appareils social-démocrates et "communistes" issus du stalinisme, avec la classe ouvrière. Non : le problème, c'est la référence à la classe ouvrière.

Pas de rupture avec les vieux partis en tant qu'appareils bureaucratiques, mais une rupture réelle avec toute référence à la classe ouvrière, et donc avec le mouvement ouvrier. La "critique de l'essentialisme" joue là le rôle classique d'une couverture idéologique : la conscience est proclamée autonome, les classes n'existent pas, donc inventons. Rompre avec "l'essentialisme" voulait dire rompre avec la classe ouvrière. Inventons ! Inventons quoi ? Le "populisme".

Voici le Populisme !

Le populisme fut ainsi défini par Ernesto Laclau dans La raison populiste :

"Un mode d'articulation opérant selon une logique équivalentielle, qui aboutit, par un enchaînement d'équivalences entre une multiplicité de demandes hétérogènes, à créer un peuple."

Sous ce verbiage impressionnant, voire intimidant, on pourrait penser qu'on a une démarche pragmatique assez simple, voire cynique, somme toute :

"L'idée des néo-populistes, c'est d'allier des luttes locales et a priori sans lien, comme par exemple celle pour le mariage homosexuel et celle contre la construction d'un aéroport et celle contre la fermeture d'une école maternelle. Chaque lutte possède un ennemi local (les cathos intégristes, les promoteurs immobiliers, la mairie de droite). Plus on agrège des luttes ensemble, moins ce qui "nous" relie a de substance, mis à part celle d'être en lutte contre une série d'ennemis tout aussi protéiformes. On a donné le nom de peuple, ou "les gens", pour décrire le nous, et celui des élites pour décrire l'ennemi. Ça permet de mobiliser toutes ces luttes dans un front large. Donc c'est pas si compliqué que ça, la formule est pas si obscure que ça en contexte, la stratégie fonctionne pour gagner des élections (voir Syriza, Podemos, Revolution Ciudadana) en évitant la fragmentation qui caractérise la gauche de la gauche depuis longtemps." (je recopie ici une intervention dans un débat sur Facebook).

Mais aucun des exemples donnés ici, et on pourrait en ajouter d'autres, ne s'est construit en réalité de cette manière. En ce qui concerne Podemos, il y a eu initiative politique d'un groupe, dans le contexte créé par les mouvements massifs d' "indignés" occupant les places publiques en 2012, mais il ne s'agit pas de l'expression politique directe de ce mouvement, ni de la fédération de luttes "sans lien entre elles". C. Mouffe et I. Errejon sont pleinement d'accord et se félicitent du fait que "l'initiative de Podemos est lancée sans aucune forme de consultation préalable entre les mouvements, ni les assemblées, ni avec les indignés." Il ne fallait surtout pas soumettre cette initiative à la discussion ! Le mode d'articulation dont parle Laclau n'est pas la fédération démocratique de mouvements divers. Au demeurant, ces mouvements étaient déjà articulés dans le 15M et les Indignés, précisément parce qu'ils n'étaient pas sans liens entre eux, mais que tous étaient des réactions sociales aux attaques capitalistes – "essentialisme" "marxiste" ! La question de leur représentation politique se posait publiquement, ouvertement, en Espagne depuis 2012. Comme l'avoue très franchement Errejon, Podemos en tant que mouvement "populiste" n'a pas été pensé et fondé pour assurer démocratiquement cette représentation. De fait, il n'aurait pas agi autrement si l'intention avait été de court-circuiter et de confisquer cette représentation le plus vite possible (4).

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Les modes idéologiques actuelles à l'extrême-gauche ne facilitent pas, il est vrai, la compréhension critique de ce dont il s'agit réellement là. Ainsi, le terme d' "intersectionnalité" peut être facilement combiné aux "modes d'articulation" à la Mouffe-Laclau. Rien n'existerait "par essence", ni classes, ni genres, ni nations, tout serait "construction sociale et langagière", croyance qui constitue justement le plus sûr moyen de faire de l'essentialisme réel, celui que critiquait Marx il y a un siècle et demi, et que critiquent les biologistes aujourd'hui : cataloguer des "ismes" et des "phobies" les uns à côté des autres ("classisme", "sexisme", "homophobie", "islamophobie", "spécisme" ... (5)) en éclatant toute compréhension unifiée de la société et des rapports de production, ce qui permet éventuellement d'y faire son marché et de choisir son "isme" et sa "phobie" (6).

Au fond, Laclau et Mouffe ne font-ils pas de l' "intersectionnalité" ? Certes, mais avec un petit quelque chose de plus assez éclairant sur les confusions possibles autour de cette notion.

Deux termes clefs sont présents dans la formulation fumeuse de Laclau citée ci-dessus. Les "demandes" sont "hétérogènes", ce qui peut vouloir dire plus encore que sans lien apparent (mais avec un lien social sous-jacent), comme présenté ci-dessus par l'intervenant sur Facebook. Elles peuvent être, même, et elles le sont chez Laclau – comme elles l'étaient dans le mouvement politique qui a toujours été le sien : le péronisme de gauche – contradictoires, opposées.

C'est-à-dire, en termes soi-disant "essentialistes", qu'elles peuvent émaner de groupes sociaux aux intérêts opposés. Le "mode d'articulation" façon Laclau associe des intérêts opposés. Et il les associe dans "un peuple", seconde notion clef.

Combinons tout cela : il s'agit d'unir des intérêts sociaux opposés dans un seul et même "peuple". Dit comme cela, c'est certes beaucoup moins original ...

"Nous" contre "Eux".

Chez Laclau, ce dont il vient d'être question est la plupart du temps présenté comme une description des pratiques socio-politiques effectives, surtout dans des sociétés destructurées par le néolibéralisme comme celles d'Amérique du Sud, plus que comme une méthode préconisée pour construire des organisations politiques de masse. De Peron à Christina Kirchner, présidente néo-péroniste de l'Argentine qui lui rendra un hommage appuyé à sa mort en 2004, en passant par Chavez, Morales, Correa ..., mais aussi des rassembleurs de "droite", voire néolibéraux comme Fujimori au Pérou, le "mode d'articulation" à la Laclau a pu être fréquemment identifié, au point de friser la banalité sans contenu.

Mouffe entend, sur ces fondements, définir une manière de "produire du politique" expression synonyme ici du "construire un peuple" de Laclau : "Il me paraît fondamental de comprendre que la politique consiste à créer un "nous" et que ça implique nécessairement de le distinguer d'un "eux". Le sujet politique collectif (le "peuple") se constitue en désignant, en affrontant, en détestant, un ennemi : c'est ce qui fait son identité, puisque lui-même est formé de groupes aux intérêts hétérogènes voire opposés. L'ennemi est perçu comme celui qui vous fait du mal, mais sa définition ne doit pas être "essentialiste", comme de bien entendu : il n'est donc pas défini, mais décrit, et ne sera donc pas forcément, un groupe exploiteur et/ou oppresseur. Juste un ennemi.

Nous touchons là à l'apport plus propre à C. Mouffe. Elle a péché cette brillante trouvaille chez un illustre "penseur du politique" : Carl Schmitt. Il est permis de dire, l'ignorance ne servant de rien à personne (Spinoza), que chez Carl Schmitt, le "nous" était le Volk germanique, le "eux" la juiverie internationale (7). Carl Schmitt était le principal théoricien du "politique" et du droit, ou du non-droit, de l'Etat national-socialiste allemand entre 1933 et 1945. Certes, on ne saurait voir là une sorte de principe de contre-autorité qui interdirait d'étudier ou de se servir de Carl Schmitt. Il faut l'étudier, mais sans être dupe. Or, dans Construire un peuple, C. Mouffe, I. Errejon et l'éditeur évitent soigneusement d'informer le lecteur de ces données élémentaires sur le supposé grand penseur dont il est ici question. N'ayons pas la naïveté de croire qu'ils ont supposé les lecteurs tous assez cultivés pour savoir de qui il retournait. La jeune lectrice ou le jeune lecteur "insoumis" pourra facilement s'imaginer que Carl Schmitt était un grand "critique du libéralisme", et l'ignorance à cet égard se manifeste même chez de possibles lecteurs d'un âge plus canonique (8).

Le leader charismatique.

L'addition d'intérêts hétérogènes construit "un peuple" en se définissant comme un "nous" contre un "eux", et en se rassemblant autour de la figure d'un chef charismatique :

"Pour créer une volonté collective à partir de demandes hétérogènes, il faut un personnage qui puisse représenter leur unité, je crois donc qu'il ne peut pas y avoir de moment populiste sans leader, c'est évident." - un leader "charismatique".

Un peuple, un ennemi, un leader !

Sa relation à la base est autoritaire dans le cas du "populisme de droite" – et de mentionner Marine Le Pen. Mais il peut y avoir "un autre type de relation, moins vertical" ... sans plus de précisions, et l"horizontalité insoumise" en la matière n'a convaincu que les convaincus ...

Pour appuyer ces propos de C. Mouffe, I. Errejon pense opportun de citer le dirigeant anarchiste espagnol Buenaventura Durruti. L'exemple, comme le seraient tous les exemples pris dans l'histoire du mouvement ouvrier à l'exception partielle de Ferdinand Lassalle, est mal choisi, car ici la lutte commune (et non les "demandes hétérogènes" !), et l'organisation, préexistent au dirigeant reconnu comme tel. Dans le schéma "populiste" le chef est au contraire un identifiant nécessaire et donc préalable, puisque les "demandes" sont "hétérogènes" : la figure du chef et la figure de l'ennemi sont l'une et l'autre indispensables.

L'agonisme "démocratique".

Parvenu à ce stade, le sympathisant du "populisme" ou du "populisme de gauche" s'estimera sans doute en droit de protester :

"Vous êtes en train de nous tailler un costard qui suggère fortement que des mouvements comme la France insoumise sont des hordes fédérées par un Chef, contre une représentation de l'Ennemi, visant à fonder un Peuple dans lequel des intérêts – des intérêts de classe - hétérogènes, coexistent. Vous êtes en train de nous faire croire que c'est comme Mussolini. Mais vous mentez, car C. Mouffe dit bien qu'elle pense "avec et contre" Schmitt, sa vision du politique se situant dans le cadre de la démocratie pluraliste. Aucun confusion avec le fascisme n'est donc permise."

Il est exact que, à ce stade, les caractéristiques énumérées se prêtent fort bien à la description du fascisme lors de son émergence. Précisons toutefois que je ne me suis pas livré ici à un exercice autre que l'analyse du discours des théoriciens du "populisme" sur lui-même. Ni Podemos, ni la FI, ni le M5S italien, n'ont été ici analysés en eux-mêmes par leur place dans les rapports sociaux et politiques réels (de manière "marxiste essentialiste" !). Nous en sommes encore à l'analyse du discours et de la théorie. Et il est vrai qu'à ce stade, c'est en effet assez "inquiétant" !

Mais rassurons-nous donc, C. Mouffe, qui "pense" avec C. Schmitt, ne préconise pas de détruire quelque ennemi que ce soit par la violence, mais seulement d'instaurer temporairement, par la voie des urnes, une "hégémonie" nouvelle. Elle prend soin de distinguer l'antagonisme de Schmitt de ce qu'elle appelle l'agonisme de la démocratie pluraliste, qu'elle entend donc préserver. Nous voila rassurés ... mais "pensons" un peu, nous aussi, "avec et contre" C. Mouffe !

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L'agon, c'est la compétition chez les citoyens grecs de l'Antiquité, fort conflictuelle, mais se situant dans le champ de la confrontation politique, rhétorique ... ou sportive. Il ne devait pas dégénérer en stasis, en guerre civile - mais c'est arrivé, souvent. La joute politique agonistique fait vivre la démocratie dans la cité en donnant forme aux conflits, sans jamais détruire la cité, ce qui se produit lorsque l'un des groupes en compétition – le démos, l'aristocratie, les nouveaux riches ...- entreprend de faire prévaloir radicalement ses intérêts. Pour être précis, l'agon évite d'entrer dans la voie de la réalisation du partage des terres et de l'abolition des dettes, ces deux revendications révolutionnaires du monde antique et au delà, qui s'accompagnent souvent, qui plus est, lorsque tel ou tel groupe entreprend de les satisfaire, de la libération collective d'esclaves. Historiquement l'exemple romain est intéressant : vers 130-120 av. J.C., les Gracques, voulant restaurer un corps civique étrillé par les inégalités, sont entrés dans la voie du partage des terres et de l'abolition des dettes. Leurs adversaires aristocratiques ont déclenché contre eux les guerres civiles romaines, au nom de la préservation de la république, conduisant à sa liquidation après des décennies de guerres généralisées dans toute la Méditerranée. L'ordre agonistique a été sauvé de la révolution sociale ... au prix de sa disparition. La compétition politique a disparu, remplacée par les joutes de rhéteurs et les jeux du cirque.

Le sens précis de la démocratie pluraliste maintenue par la confrontation agonistique, mais non antagonique, selon C. Mouffe, est que jamais le cadre social de celle-ci, que serait le capitalisme, ne prendra fin. I. Errejon enfonce le clou : le "libéralisme" veut mettre fin au conflit et donc à la politique, et le "marxisme" veut abolir "la contradiction capital-travail", passant à des "sociétés sans politique". Donc : si nous voulons préserver la politique, n'abolissons pas la contradiction capital-travail (on comprend mieux que le populisme soit disposé à être tout ce que l'on voudra, sauf une organisation de classe).

Qu'il y ait là une réaction contre de nombreux discours "marxistes", et aussi utopistes ou anarchistes, annonçant une société sans classe, ni Etat, ni politique, sans doute. Mais enfin, nous avons affaire à des gens qui se prévalent de leur capacité à "penser", et à "penser" "avec et contre", s'il vous plaît ! La notion d'"agonisme" opposée à "antagonisme" provient, disions-nous, des anciens Grecs, chez lesquels il n'y avait pas de "contradiction capital-travail". Preuve qu'on peut avoir de la "politique" sans celle-ci, non ? Que le réglement de cette contradiction là doive mettre fin au politique, au débat, aux confrontations d'intérêts, d'idées et d'objectifs, demanderait à être démontré, et ne l'a jamais été (y compris par ceux qui souhaitaient cette eschatologie). En somme, C. Mouffe et I. Errejon, ces "post-marxistes", conservent précieusement par devers eux une croyance, et une seule, de l'ancien mouvement ouvrier : celle selon laquelle en finir avec le capitalisme mettrait fin à la politique. Peu importe qu'ils tiennent la chose pour impossible ou pour dangereusement possible, le résultat est le même, puisque cette croyance devient chez eux un repoussoir. Au service d'une orientation politique précise : en finir avec le mouvement ouvrier, ne plus représenter d'intérêts de classe, unir des intérêts de classe opposés, et donc, préserver le capitalisme.

Or, il se trouve que le compère Carl Schmitt, sur ce point, était tout à fait d'accord. La contradiction capital-travail n'était pas son sujet et il entendait clairement maintenir le capitalisme. Sauf que chez lui, l'union du "peuple" sous un "chef" contre un "ennemi", maintenant au passage le capitalisme, détruisait sans états-d'âmes la démocratie pluraliste et même libérale. Cela s'appelait, permettons nous encore l'impolitesse de le rappeler, le national-socialisme, abrégé en nazisme, n'est-ce pas.

Aucun doute sur le fait que C. Mouffe est pour la démocratie pluraliste et donc qu'à ce titre, elle est bien "contre" son maître C. Schmitt. Mais démocratie pluraliste et capitalisme pour elle font bloc, sont associés. Donc, maintenir la démocratie pluraliste implique de maintenir le capitalisme, même si elle n'insiste pas trop, se contentant en général de sous-entendre ce point comme une évidence qui devrait aller de soi. Son "populisme", qui est, sinon "de gauche", en tout cas pas "de droite", se maintiendrait ainsi dans les limites d'une confrontation rigoureuse et animée, débordant la bienséance libérale, mais toujours civilisé. Pas de sang.

Qu'il soit permis d'avoir un doute, non pas sur la sincérité de l'attachement de C. Mouffe à la démocratie, mais sur le fait qu'on puisse rester civilisé en galvanisant des foules derrière un chef et contre un ennemi, tout en préservant le capitalisme. De ce point de vue, l'expérience de plusieurs gouvernements de gauche latino-américains est importante, particulièrement celle du Venezuela, qui, sous Chavez, était resté, voire véritablement devenu, une démocratie pluraliste. Mais sous Maduro ... non seulement le capitalisme, mais le paiement des dividendes aux actionnaires et créanciers impérialistes, sont préservés. Quand à la démocratie pluraliste ...

D'ailleurs C. Mouffe, devant les élans "antagonistes" d'I. Errejon qui compare la passion politique contre l'ennemi à celle des bandes de supporters d'un match de foot – une comparaison signifiante, nous y reviendrons -, lesquelles "'s'entre-tuent parfois", concède que "l'agonisme n'élimine pas l'antagonisme, c'est une façon de le sublimer." Des régimes qui "subliment" la passion de foules que l'on ne peut satisfaire sur le fond car le capital et son accumulation sont maintenus et poursuivis, il y en a eu ... et leur degré de violence, pas "antagonique" envers le capital, s'est avéré "antagonique" envers la civilisation et la culture humaines.

Nous ne sommes donc pas rassurés par la profession de foi démocrate-pluraliste "avec et contre" C. Schmitt de C. Mouffe.

Soyez quand même rassurés, notre ADN est antifasciste !

Errejon précise : "Pour nous, l'adversaire ce sont ceux d'en haut qui ont confisqué la démocratie, pas ceux d'en bas, sous prétexte qu'ils viendraient d'autres pays ou qu'ils auraient une autre couleur de peau. Ceux qui auraient ce genre d'idées, pas question de négocier ni de discuter avec eux ; pour nous, c'est une frontière infranchissable."

Avec les fascistes, racistes et xénophobes, il entend avoir des rapports "antagonistes" et pas "agoniques".

Dont acte. Mais il y a un talon d'Achille. C. Mouffe le fait ressortir elle-même. Elle explique d'abord que si "la confrontation peuple/caste" est bien de nature "agonistique", ceci signifiant clairement "qu'il ne s'agit pas d'essayer d'en finir avec la "caste" par une révolution ou un coup d'Etat" (et donc qu'il ne s'agit pas d'en finir avec elle d'une façon générale, car la "démocratie pluraliste" supposant la "confrontation agonistique" aucun des deux camps opposés ne doit être éliminé, tout au plus peuvent-ils se transformer en d'autres termes contradictoires opposés). Ces précisions étant apportées, elle demande à I. Errejon : "qui sont ceux de la caste" ?

"Leur indéfinition même fait leur pouvoir mobilisateur", répond ce dernier. Si nous étions rassurés, nous ne le sommes plus.

La "caste" et "l'oligarchie" sont les termes qui désignent, dans les trois mouvements "populistes" d'Europe occidentale, nonobstant leurs différences, que sont Podemos, la FI et le M5S, la figure de l'ennemi. Dans les deux premiers d'entre eux, peut-être même aussi dans le troisième, nul doute que ce sont les capitalistes qui sont perçus ainsi par beaucoup d'adhérents de base. L' "essentialisme" a la vie dure, forcément puisqu'il s'agit des rapports sociaux réels ... Mais dans le discours des chefs, il ne s'agit pas du capital, mais seulement de sa couche supérieure, le capital financier et boursier, lequel n'aurait pourtant aucune existence si le capital dit "productif" ne l'engendrait pas et ne recourrait pas à lui en permanence. La dénonciation de la "caste" est donc une formulation ambigüe qui se nourrit de l'existence du capital financier. Lui sont agrégés les politiciens et les gros acteurs médiatiques. Il s'agit là d'une représentation fétichisée, qui fantasme l'ennemi dans la figure du riche médiatique. Elle est indissociable des représentations traditionnelles contre la "finance cosmopolite", c'est-à-dire des représentations antisémites qui s'exprimaient ouvertement avant 1945, et à nouveau aujourd'hui dans plusieurs pays d'Europe centrale et orientale. Il est indispensable de dire et de comprendre cela pour caractériser les "populismes". En faisant ce constat, personne n'a traité I. Errejon ou J.L. Mélenchon d'antisémite. Toute tentative d'interdire que cette question soit abordée au motif que ce serait malséant, est une tentative d'interdire tout débat démocratique sérieux sur ce à quoi nous avons effectivement affaire (9).

Plus généralement la figure de l'ennemi est plastique et évolutive, ce qui semble beaucoup plaire à I. Errejon. Lui-même ne fera jamais d'un groupe ethnique ou national son ennemi, pas de doutes là-dessus. Mais la méthode de mobilisation politique qu'il théorise et promeut ne comporte en elle-même aucun garde-fou contre cela. Au contraire, en suscitant à la fois la "passion" dans la dénonciation de "la caste", sans que le but soit pour autant de transformer les conditions sociales qui fondent l'existence de la dite "caste", elle est susceptible de porter à son paroxysme passion et frustration en même temps. Dans la société capitaliste, de telles contradictions politiques ne se résolvent en général que par la désignation de boucs émissaires ne faisant pas partie du coeur de la classe dominante.

A propos du "patriotisme".

La métaphore favorite d'I. Errejon pour décrire ce que doit être la mobilisation de la foule rassemblée contre la caste est le match de foot. C'est plus qu'une métaphore : les "passions" doivent être mobilisées, explique C. Mouffe – d'autant plus qu'il s'agit d'associer des couches que leurs intérêts pourraient opposer. Dans un cadre de pensée présenté comme rationnel, le congédiement des conditions sociales concrètes en tant qu'"essentialisme" ouvre grand la porte à l'irrationnel, non pas à cet irrationnel qui est en chacun de nous, non pas aux émotions et passions d'amour et de colère qui animent évidemment tout mouvement social vivant, mais bien à l'irrationnel proprement dit, la galvanisation autour du Chef charismatique, la célébration du drapeau – I. Errejon est en quête d'un "drapeau", de l'objet -, la sensation des individus fusionnant dans le slogan, le cri, l'émulation du match. Toute une thématique de "la foule" qui remonte à Gustave Le Bon refait surface ici, qui n'est pas la même chose que la foule constituée, marchant à la lutte, faite d'individus conscients ou accédant à la conscience, de la manifestation "ouvrière", laquelle n'est pas pour autant sans chaleur et souffle.

Au final, le "peuple" qu'il s'agit de "construire" est déjà là, c'est celui des Etats-nations à défendre contre le "mondialisme" de la "caste" - cette problématique là est peut-être plus présente chez I. Errejon que chez C. Mouffe, de même que son appétence pour "la plèbe". Il me semble, dans ce cadre, significatif que les termes "patrie" et "patriotisme" soient utilisés par eux, préférentiellement à "nation". Cette évolution se retrouve chez J.L. Mélenchon, où l'idée nationale républicaine et égalitaire se mélange et fait de plus en plus place à un pathos émotionnel autour de "la patrie", terme qui renvoie à la filiation et au sol. La terre, les morts, la colline inspirée ... le sang, sont-ils si loin ?

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Qu'il soit au moins permis de poser la question. Cela d'autant plus que la non mise en cause de la "démocratie pluraliste" équivaut de fait au maintien des Etats existants. En France, J.L. Mélenchon est un défenseur conséquent des intérêts impérialistes "nationaux". En Espagne, I. Errejon est gêné et contourné envers l'Etat espagnol. Mais, conséquent, il a pris la décision de l'appeler "Espagne" et de laisser de côté la question de la monarchie. Catalogne, Pays Basque et Galicie font donc partie de "l'Espagne", même si I. Errejon se réserve une marge de manoeuvre sur ces questions.

Ils ont bon dos ...

Ajoutons rapidement quelques remarques sur les références de nos penseurs. J'en ai mentionné une qui me semble de loin la plus sérieuse et la plus problématique : Carl Schmitt. Mais celui dont on aime à prononcer le nom, comme s'il était un label de pensée profonde, c'est "Gramsci". On pourrait dire que nous assistons à la mise en scène d'une essentialisation de Gramsci ...

Il est vrai que ceci n'a rien de nouveau. Dans le PC italien de Palmiro Togliatti, qu'I. Errejon invoque régulièrement comme le grand exemple passé de réussite "national-populaire", avait commencé la fétichisation de "Gramsci" au détriment de sa pensée impossible à mettre en cage, elle. C. Mouffe sait cependant très bien à quoi s'en tenir et elle a la franchise de le dire :

" ... nous reprenons son idée de "guerre de position", la lutte à l'intérieur des institutions, mais Gramsci pensait que c'était en préparation de la "guerre de mouvement", lors de la rupture révolutionnaire. Et ça, nous l'avons laissé de côté." En effet ; et de plus la "guerre de position" de Gramsci est loin de se réduire à "la lutte à l'intérieur des institutions".

Mouffe poursuit : "Un autre exemple est que le noyau central d'une hégémonie doit toujours être une classe fondamentale, et nous avons écarté cette idée."

Que reste-t-il alors du révolutionnaire prolétarien et marxiste Antonio Gramsci ? Rien, si ce n'est des expressions qui font intelligent, telles que l'assaisonnement à tout propos d'un peu de "guerre de position". C. Mouffe et I.Errejon sont ceci dit convaincus que "si Gramsci avait vécu à notre époque, il serait arrivé à une conception semblable à la notre" !

Cette affirmation nous apprend beaucoup sur la psychologie sociale (ah,"essentialisme", quand tu nous tiens ...) de Mouffe et Errejon. Le "marxisme" dont ils ont hérité dans leur jeunesse, résultat de décennies d'impasses politiques et bureaucratiques, était d'une telle fadeur que c'est sans doute un sentiment de libération intellectuelle qui les habite, et se complète d'un sentiment universitaire de supériorité, une fois qu'ils ont rompu avec leur fétiche, "l'essentialisme", et que licence leur est donner de raconter ce qu'ils veulent.

Le traitement de Gramsci est central. Nous le retrouvons avec quelques antiennes sur Hegel dont le "travail du négatif" est assimilé à la construction du peuple contre "eux" sans que jamais la négation ne s'arrête, car, c'est bien connu, il ne faut surtout pas mener la lutte à son terme. Et nous le retrouvons envers Machiavel, tantôt avec la thématique du nouveau Prince qui construit un peuple, une véritable idée machiavélienne qui conseille d'ailleurs au dit Prince de faire une révolution sociale pour cela, tantôt avec celle de la lutte agonistique des dominants et des dominés dans la cité, dont on oublie un peu vite que Machiavel la fait persister au moyen du "retour au principe" de la république, une rinovazione ou une réformation qui est à l'origine du mot "révolution", faute de laquelle la république se corrompt et meurt.

Du réformisme ?

Daniel Tanuro, dans une contribution dont je puis reprendre la plupart des termes (11), conclut ainsi sur ce supposé "populisme" :

"Il [ce "pauvre Gramsci"] doit se retourner dans sa tombe car ce que Mouffe propose est ce que la social-démocratie a prétendu faire… et qui l’a transformée en social-libéralisme. "

Je crois toutefois qu'il est nécessaire de pousser le bouchon un peu plus loin. Le réformisme était un courant du mouvement ouvrier qui préconisait une évolution progressive. Il est peu à peu devenu un non-réformisme, rallié aux contre-réformes dites libérales. Le "populisme" reprend en effet la thématique réformiste, refusant la révolution ou l'appelant "révolution citoyenne". Mais ce n'est pas une simple reprise. D'une part, il se présente comme la réponse à la corruption des vieux partis issus du mouvement ouvrier, et cette réponse consiste à "construire le peuple", au lieu de, et contre, le fait d'agir pour la représentation politique du prolétariat. D'autre part, il y met une chaleur "plébéienne", comme dirait Errejon, "patriotique", faisant appel à la notion centrale d' "ordre", qui le situe, si l'on veut faire des rapprochements historiques, non comme une résurgence du réformisme d'un Blum ou d'un Huysmans, certainement pas, mais comme un courant "néo" au sens de Marcel Déat en 1932 (12). Cela ne veut pas dire qu'on affirme qu'il finira de la même façon. Mais c'est un droit et un devoir imprescriptibles que de mettre en débat ces éléments, un droit et un devoir envers la génération de maintenant.

VP, le 24/08/2017.

Notes:

(1) Errejon est le théoricien mais pas le chef charismatique, qui est Pablo Iglesias. Il est cependant important de noter que Podemos, par rapport à la FI et au M5S, reste l'organisation qui ressemble le plus à un parti au bon sens du terme. Cela tient au fait qu'un mouvement social l'a précédé et a permis son émergence, et que des courants existent de fait en son sein, différences qui ne sont pas négligeables.

(2) Faire de l'idéologie un facteur autonome était déjà un thème central de Laclau en 1977 dans Politics and Ideology in Marxist Theory, New Lefts Books éd.

(3) Sur la critique de l'essentialisme par les biologistes de l'évolution, qui n'a rien à voir avec l'emploi de ce terme chez Mouffe, voir le Guide critique de l'évolution, sous la direction de G. Lecointre, Belin, 2009.

(4) Errejon est naturellement convaincu que si l'initiative n'avait pas été prise alors, aucune formation politique nouvelle n'aurait vu le jour. Il est vrai que les fondateurs de Podemos ont occupé le vide laissé par gauche et extrême-gauche traditionnelles. Mais il est vrai aussi que depuis 2012 la question d'une nouvelle formation politique était posée ouvertement et massivement en Espagne.

(5) Pour des raisons qu'il serait trop long de développer ici, le mot "racisme" est par contre de moins en moins présent dans ces énumérations, qui mettent à sa place notamment l'islamophobie.

(6) Le PIR (Parti des Indigènes de la République) dit rejeter l' "intersectionnalité". En fait il choisit un seul groupe ethno-religieux au nom duquel toute forme d'oppression est pour lui légitime.

(7) "Il est permis de le dire". Car, comme de longue date pour le nazi philosophe Martin Heidegger, il n'est en fait pas permis de le dire dans certains cercles et publications. Il est d'ailleurs à craindre que la mode "populiste" n'entraîne une mode des idées soi-disant profondes de Carl Schmitt, le nazi juriste.

(8) http://clubpolitiquebastille.org/spip.php?article197 Charles Jérémie écrit, pour jeter l'anathème sur mon "auvergnate" personne ("Vincent Présumey écrit beaucoup de sa bonne Auvergne, parfois des choses intéressantes."), que "Ainsi, faire découler de Chantal Mouffe, Carl Schmitt and Co un possible antisémitisme est tout à fait insensé. Imbuvable." . Que penser d'un "ashkénaze" prenant la défense de ... Carl Schmitt contre un "auvergnat"!? Il est vrai qu'on apprend dans le même article que "En France dans le mouvement ouvrier, il n’y a qu’un exemple de contamination antisémite.", celui des néos, et encore seulement à la fin des années trente ! Décidément, oui, "L'ignorance n'a jamais servi de rien à personne" (Spinoza).

(9) Tel est bien le sens de l'interdit jeté par C.Jérémie contre la soi-disant accusation d'antisémitisme envers Mélenchon, dans l'article en lien à la note précédente. "Stigmatiser me lasse", écrit-il plus haut. Il doit donc ressentir une grande lassitude.

(11)

https://blogs.mediapart.fr/jean-marc-b/blog/120817/le-mom...

(12)

https://blogs.mediapart.fr/robert-duguet/blog/040817/l-hi...

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mardi, 22 août 2017

Le djihadiste et la belle vie des autruches

 

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Le djihadiste et la belle vie des autruches

par Philippe-Joseph Salazar

Ex: http://www.lesinfluences.fr

Le dernier attentat perpétré à Levallois-Perret souligne une fois de plus la totale politique de gesticulation face à la puissance rhétorique des partisans de l’islam terroriste.

#Paroles armées. C’est l’été, “Plus Belle la Vie en continu”, la météo des plages, et les autruches la tête dans le sable. À Levallois-Perret, des musulmans terroristes tentent d’assassiner nos soldats. Les autruches sortent la tête du bac, et l’y replongent. Les autruches que le gouvernement va plumer à la rentrée pensent aux cortèges syndicaux, le cancan national, et le truc en plume.

Des soldats tombent. On doit tout de même admirer nos militaires qui se sacrifient pour la défense des autruches. Pourquoi se font-ils tuer ? Pour des autruches.

Un « spécialiste », président du centre d’analyse du terrorisme, déclare à France Info que les militaires de l’opération Sentinelle « ne sont pas formés aux combats en zone urbaine ». Lapalisse analyste !

Des soldats tombent.

Depuis deux ans on les forme en effet à se faire tuer. Les autruches envoient, bagatelle pour des massacres, des jeunes gens qui auraient mieux fait de devenir banquiers, pour que les volailles continuent à avoir la tête dans le sable et faire du fitness plagiste.

Et pourtant, on enseigne bien la “stratégie” dans les boîtes à business d’où sort notre élite emplumée ? C’est une discipline qui fait bien partie de la formation de nos écoles militaires qui défilent au son incongru de “Get Lucky” le 14 juillet ? “Get lucky ?”, “bonne chance”, voilà la doctrine militaire d’une France en état de guerre et de guérilla : allez, soldats, bonne chance, « get lucky  ».

Les autruches, elles, sont à la plage. « Lucky » autruches.

Soyons sérieux, même en été.

Le philosophe politique Carl Schmitt conclut sa Théorie du partisan, composée au début des années soixante, sur ces mots prémonitoires :

« Qui saura empêcher l’apparition de types d’hostilité nouveaux et inattendus, dont la mise en œuvre engendrera des incarnations inattendues d’un partisan nouveau ?  »

Le Califat, ISIS, EI, Daesh, nommez-le comme vous le désirez, est encore debout, à quelques encablures en fait des plages de Corse. Cette hostilité nouvelle effraie, mais elle chasse surtout de nos pensées la réalité des faits. Il faut en finir avec la rhétorique creuse des médias et des politiciens de profession, et nommer avec justesse le phénomène, un Califat, et ses acteurs, « soldats et partisans », et ses actions, « guerre et guérilla ».

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Carl Schmitt prémonitoire dans sa Théorie du partisan :« Le soldat ennemi en uniforme est la cible du partisan moderne ».

La classe politique et les relais médiatiques résistent devant l’appellation juste et radicale de cette hostilité islamique : la cause en est que la violence est, dans nos sociétés, aseptisée par la loi (à chaque violence correspond un délit ou un crime) et réduite à des rhétoriques explicatives (sociologie, psychologie, etc.), en vue de la cantonner dans l’idéologie dominante : la gestion des groupes humains par la prévention et la réinsertion. Les autruches aiment bien que le maître de la basse-cour leur dise : nous gérons le risque, pas de souci, je vous aime.

Des soldats tombent.

Les djihadistes du Califat qui opèrent sur le territoire national, dans notre temps et dans notre espace, implantent une forme neuve de proximité, celle du partisan. Schmitt avertit : « Le soldat ennemi en uniforme est la cible du partisan moderne ».

La propagande du Califat est claire dès son apparition sur la scène politique : il faut tuer tout représentant en uniforme de l’État car pour le Califat la France est occupée par des ennemis – nous, des mécréants et leurs alliés et serviteurs, les « musulmans modérés ». La gendarmerie et la police, et désormais l’armée déployée, sont des forces d’occupation de la « wilayat Fransa  ». Nous sommes des occupants. Du coup, le djihadiste doit résister à l’occupant en pratiquant la guérilla et devenir partisan.

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On peut médicaliser, psychologiser et sociologiser autant qu’on veut pour « expliquer une radicalisation », le fait est que tous ces partisans du Califat qui sont déployés sur notre territoire sont corps et âme à un idéal qui les rend, à leurs yeux, mieux qu’eux-mêmes.

C’est donc le combat de l’irrégulier contre le régulier, du soldat sans uniforme, qui se fond dans le paysage urbain, contre le soldat régulier qui devient une cible. L’essentiel est ici : tout soldat régulier est cible du partisan. Dès lors le langage de l’hostilité change car la ligne de front est dans la proximité : « acte » terroriste est insuffisant, il faut dire « attaque de guérilla ».

Il est temps que les autruches comprennent que le partisan djihadiste fait intégralement partie d’une mission qui le dépasse et l’élève en même temps. Il s’aligne sur une politique idéale. C’est un aigle du Hoggar, un oiseau de proie venu d’Arabie Pétrée. On peut médicaliser, psychologiser et sociologiser autant qu’on veut pour « expliquer une radicalisation », le fait est que tous ces partisans du Califat qui sont déployés sur notre territoire sont corps et âme à un idéal qui les rend, à leurs yeux, mieux qu’eux-mêmes – un petit salaud devient un martyr, et un délinquant minable un héros. Ne riez pas, autruches mes sœurs, la guerre sert souvent à ça : transformer les gens. Tuer grandit. Tuer pour un idéal grandit encore plus. Tuer pour Dieu, grandit absolument.

Et nos soldats tombent, sans autre idéal que de faire en sorte que les autruches puissent regarder “Plus Belle la Vie” et attendre avec anxiété … la météo des plages.

  Philippe-Joseph Salazar est l’auteur de Paroles armées-comprendre et combattre la propagande terroriste (Prix des Lumières 2015).

 

mardi, 23 mai 2017

Le droit des peuples réglé sur le grand espace de Carl Schmitt

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Le droit des peuples réglé sur le grand espace de Carl Schmitt

par Karl Peyrade

Ex: https://www.lerougeetlenoir.org

Avec Le droit des peuples réglé sur le grand espace (1939-1942), Carl Schmitt commence à s’intéresser, dans le cadre de son analyse juridique et géopolitique, à la question de l’espace. Le droit international public est désigné par le juriste allemand comme le droit international des gens, c’est-à-dire ceux qui appartiennent à un Etat territorialement délimité dans un pays homogène. Le concept de grand espace apparaît au XIXe siècle avec l’idée de territoires équilibrés. Dans la tradition juridique française initiée par Jean Bodin puis reprise par les jacobins, ce sont plutôt les frontières naturelles qui ont servi à justifier l’expansion gallicane. A l’opposé, la logique de grand espace valide le droit des peuples à forte population à dominer sur les autres. La conception française s’articule sur un schéma géographique tandis que la notion de grand espace est liée à un déterminant démographique.

Ce paradigme spatial apparaît très explicitement dans la doctrine Monroe de 1823. Cette théorie américaine revendique l’indépendance de tous les Etats américains, interdit leur colonisation par des Etats tiers et défend à ceux-ci d’intervenir en leur sein. Elle crée donc un corpus de règles ayant vocation à s’appliquer à un grand espace qui est l’espace américain. La difficulté réside dans le fait que la doctrine Monroe a évolué avec le temps. Elle est passée d’un non-interventionnisme catégorique à un impérialisme intransigeant, d’une neutralité à une position morale donnant le droit de s’ingérer dans les affaires des pays du monde entier. « L’aversion de tous les juristes positifs contre une telle doctrine est bien compréhensible ; devant pareille imprécision du contenu normatif, le positiviste a le sentiment que le sol se dérobe sous lui », ironise l’auteur. En fait, les américains ont modifié leur interprétation de la doctrine Monroe au fil du temps et de leurs intérêts. La raison d’Etat se passe facilement des débats juridiques car contrairement à ce que de nombreux juristes pensent, dans la lignée du positivisme juridique, le droit ne créé rien. Il est simplement le reflet d’un rapport de forces. Les marxistes le désigneraient comme étant une superstructure.

D’après Talleyrand, l’Europe est constituée de relations entre Etats. Monroe est le premier à parler de grand espace. Le grand espace repose sur l’idée d’inviolabilité d’un espace déterminé sur lequel vit un peuple avec un projet politique. Il suppose aussi l’absence d’intervention dans les autres espaces. Au départ, ce principe était donc interprété dans un sens continentaliste. Mais à l’arrivée, on débouche sur un interventionnisme capitaliste et universaliste avec le triomphe de l’interprétation britannique. Le passage de la neutralité à l’impérialisme américain s’incarne particulièrement en la personne du président Wilson (1917). Ce dernier a fait du principe local du droit des peuples à disposer d’eux-mêmes un principe à valeur universelle. Carl Schmitt critique cette « réinterprétation de la doctrine Monroe, au départ idée concrète du grand espace, géographiquement et historiquement déterminée, en principe général d’inspiration universaliste, censé valoir pour la Terre entière et prétendant à l’ubiquité ».

Le principe de sécurité des voies de communication britanniques constitue un bon exemple de notion universaliste au profit de l’impérialisme anglo-saxon. Contrairement aux Etats-Unis et à la Russie, il n’existe pas de continuité spatiale dans l’empire britannique qui est une addition de possessions émiettées sans espace déterminée et sans cohérence. Afin de justifier la sécurité des voies de communication, les anglais ont adopté des principes universalistes permettant d’assimiler l’empire britannique au monde. En effet, les anglais régnaient sur la mer. Ils avaient donc intérêt à ce que les voies maritimes soient sécurisées au nom de leur principe de sécurité des voies de communication leur permettant d’intervenir partout et de dominer les espaces maritimes des pays neutres. A titre d’exemple, ils ont empêché le monopole français sur le Canal de Suez en invoquant le principe de droit naturel des peuples à disposer d’eux-mêmes. Cela n’a en revanche pas fonctionné à Panama où les américains leur ont justement opposé la doctrine Monroe.

Philosophiquement, la vision universaliste du monde trouve sa source dans la théorie du droit naturel du XVIIe siècle qui trouve son apogée dans le concept de liberté commerciale forgée au XIXe siècle. Il ne faut pas confondre la loi naturelle qui vient de Dieu et le droit naturel selon lequel les hommes naissent tous avec des droits inhérents à leur personne humaine. Ainsi, au-delà des caractéristiques ethniques, culturelles ou religieuses, l’homme parce qu’il est homme dispose de certains droits fondamentaux. L’avènement des droits de l’homme constitue l’aboutissement suprême de la théorie du droit naturel.

A l’inverse de cette théorie, la logique des grands espaces n’a pas de portée universaliste. Elle intègre l’évolution historique des grandes puissances territoriales ayant de l’influence sur des pays tiers. Le paradigme n’est donc plus national mais spatial. Au sein de l’espace dominé par une grande puissance règne la paix en raison de l’exigence de non-intervention. Mais en dehors de cet espace, l’intervention redevient possible. Carl Schmitt reprend le concept allemand d’empire pour l’adapter aux particularités de son époque. L’impérialisme répond au contraire à une vision supra ethnique, capitaliste et universaliste. L’auteur plaide pour le Reich allemand contre les deux universalismes de son temps : l’URSS socialiste et la révolution mondialo-libérale occidentale. Il faut rappeler que la pensée schmittienne n’est en aucun cas une pensée racialiste ce que les membres de la SS n’ont pas manqué de lui reprocher. Elle s’appuie en revanche sur un peuple constitué historiquement et ayant conscience de lui-même. Pour Schmitt, le concept d’empire est traversé par les mêmes idées, la même philosophie, ancré dans un grand espace et soutenu par un peuple.

« Les autres concepts de l’espace, désormais indispensables, sont en premier lieu le sol, à rattacher au peuple par une relation spécifique, puis celui, corrélatif au Reich, débordant l’aire du peuple et le territoire étatique, du grand espace de rayonnement culturel, mais aussi économique, industriel, organisationnel […] L’empire est plus qu’un Etat agrandi, de même que le grand espace n’est pas qu’un micro-espace agrandi. L’Empire n’est pas davantage identique au grand espace ; chaque empire possède un grand espace, s’élevant par là au-dessus de l’Etat spatialement déterminé par l’exclusivité de son domaine étatique, au-dessus de l’aire occupée par un peuple particulier. »

Plusieurs conceptions peuvent découler de cette notion de grand espace. Une acception purement économiste pourrait le voir uniquement comme le lieu de l’échange commercial avec d’autres grands espaces. La vision impériale, et non impérialiste, aboutirait à des relations entre empires basés sur des grands espaces. Au sein de ces grands espaces, des relations interethniques pourraient voir le jour. Sous réserve de non-ingérence de puissances étrangères, des relations interethniques pourraient même naître entre empires différents. La notion d’empire permet, contrairement à l’universalisme des droits de l’homme, de conserver les Etats et les peuples.

Juridiquement, l’espace est traditionnellement abordé par le droit de la manière suivante : le droit privé l’appréhende à travers l’appropriation d’une terre tandis que le droit public le considère comme le lieu d’exercice de la puissance publique. Les théories positivistes voient le droit comme « un ordre intimé par la loi ». Or, « les ordres ne peuvent s’adresser qu’à des personnes ; la domination ne s’exerce pas sur des choses, mais sur des personnes ; le pouvoir étatique ne peut donc se déterminer que selon les personnes ». Le positivisme juridique n’admet donc l’espace que comme un objet relevant de la perception, déterminé selon le temps et l’espace. Au fond, il s’agit d’un espace vide sur lequel s’exerce le pouvoir étatique A l’inverse, Carl Schmitt part de l’espace pour fonder tout ordre juridique. L’auteur note l’influence juive au sein du droit constitutionnel allemand sur le concept d’espace vide : « Les rapports bizarrement gauchis qu’entretient le peuple juif avec tout ce qui touche au sol, à la terre et au territoire découlent du mode singulier de son existence politique. La relation d’un peuple à un sol façonné par son propre travail d’habitation et de culture, et à toutes les formes de pouvoir qui en émanent, est incompréhensible pour un esprit juif. » Le juriste allemand conclue son ouvrage en insistant sur le vocable juridique du Moyen-Âge qui avait une dimension spatiale (Stadt = site, civitas = cité, Land = terre etc.) et en constatant que la négation de l’espace conduit à la négation des limites ce qui aboutit à l’universalisme abstrait.

« Ces considérations ne visent certes pas à prôner le retour vers un état de choses médiéval. Mais on a bien besoin de subvertir et d’éliminer un mode de pensée et de représentation regimbant à l’espace, dont le XIXe siècle marque l’avènement, et qui gouverne encore la conceptualisation juridique tout entière ; en politique internationale, il va de pair avec l’universalisme déraciné, négateur de l’espace et par là sans limite, de la domination anglo-saxonne des mers. La mer est libre au sens où elle est libre d’Etat, c’est-à-dire libre de l’unique représentation d’ordre spatial qu’ait pu penser le droit d’obédience étatique. »

Ouvrage court mais très exigeant, Le droit des peuples réglé sur le grand espace constitue une bonne introduction à l’ouvrage majeur Le nomos de la terre qu’écrira par la suite Carl Schmitt. Ecrit dans un style toujours clair sans être universitaire, le livre présente le grand mérite d’être en avance sur son temps. A une époque où l’on réfléchissait encore en termes de nation, il anticipe largement les grandes évolutions du monde. Aujourd’hui, comment nier que le monde est traversé par une logique de blocs animés par une puissance dominante. L’espace américain est dominé par les Etats-Unis, l’espace asiatique par la Chine et l’espace eurasiatique par la Russie. Il n’y a guère que l’Europe qui ne suit pas cette évolution. En effet, au lieu de s’ancrer dans son espace culturel et religieux, elle a préféré se dissoudre dans un système technico-économique abstrait sous-tendu par les inévitables droits de l’homme. A trop nier l’espace, on finit par nier l’homme comme produit d’un enracinement culturel pour aboutir à l’homme-marchandise.

Karl Peyrade

lundi, 24 avril 2017

Théopolitique et Katechon

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Théopolitique et Katechon

Nous nous entretenons ici avec Maître Viguier des notions de théologie politique et de celle du "Katechon". Notion théopolitique complexe liée avec l'idée de fin des temps.

Le Katehon – Katechon – est un concept que le juriste et philosophe Carl Schmitt utilise dans sa théologie politique afin de désigner une figure théopolitique qui aurait pour effet de « freiner » (ce que désigne le terme grec « katechon ») l’universelle dissolution propre à la modernité et aux anti-valeurs héritées des lumières. Carl Schmitt reprend ce terme de la deuxième lettre aux Thessaloniciens de Saint Paul, où l’apôtre explique que le retour du Christ n’adviendra qu’une fois l’Antéchrist régnant sur la terre. Mais pour qu’il advienne, il faut d’abord que ce mystérieux Katechon – celui qui freine ou retient la venue de l’Antéchrist – soit vaincu. Classiquement les pères de l’Eglise successifs ont identifié cette figure avec l’Empire romain. On peut considérer comme Katechon, l’Etat qui assume la charge de défendre la Chrétienté – et plus généralement le monde – de l’anomie et de la soumission aux forces de subversion.

Voir ici : http://www.les-non-alignes.fr/le-kate...

Maître Viguier est spécialisé en droit pénal international. Diplômé de criminologie et sciences criminelles en 1987, il fréquente depuis 1989 l'œuvre du grand juriste allemand Carl SCHMITT (1888-1985) et suit en 1990 un DEA de droit pénal, puis l'année suivante un DEA Droits de l'homme. Il conseille et assiste depuis 2010 de nombreux opposants politiques persécutés en France pour leurs idées. Il intervient depuis 2013 pour la défense de civils syriens victimes de la politique étrangère de la France, et depuis 2015 au sujet de la crise du Donbass.

Nous vous conseillons aussi en introduction de revoir notre première interview de Damien Viguier, qui faisait suite à sa conférence organisée par l'association Culture Populaire (cultpop.fr).

https://www.youtube.com/watch?v=5bnEn...

C'est en partant de cette vidéo que nous avons eu l'idée de produire nos deux autres discussions sur les mêmes thématiques.

Entretiens menés et réalisés par Pierre-Antoine Plaquevent, journaliste indépendant, fondateur et animateur du site les-non-alignes.fr

http://www.les-non-alignes.fr/

Carl Schmitt, le meilleur ennemi du libéralisme

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Carl Schmitt, le meilleur ennemi du libéralisme

Dans cette conférence de novembre 2009, Jean Leca s'intéresse à la pensée de Carl Schmitt et au rapport de celui-ci à la philosophie politique.

Il note que Carl Schmitt est une référence importante pour les philosophes continentaux, notamment Hayek, et pour les philosophes politiques alors même que selon Carl Schmitt il ne peut y avoir de philosophie politique.

De même, il n'y a pas de normativité morale : au fondement de la normativité, il y a la juridicité et non la moralité. Si l'on se met à agir pour des raisons morales, en politique, c'est le meilleur moyen de susciter une violence incontrôlable.

La guerre, inscrite dans la politique comme le mal dans la création, ne saurait avoir de justification morale ou rationnelle. Elle n'a qu'une valeur existentielle, particulière. Parce que l'identité personnelle est d'abord polémique (l'être humain se définit par opposition, par inimitié), un monde sans guerre serait un monde sans être humain.

Jean Leca analyse ensuite la critique schmittienne de la non-théorie politique du libéralisme : il n' y a pas de politique libérale sui generis, il n'y a qu'une critique libérale de la politique.

mardi, 18 avril 2017

Du combat tellurique contre le système technétronique

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Du combat tellurique contre le système technétronique

par Nicolas Bonnal

Ex: http://www.dedefensa.org 

Il y a quatre ans, pendant les fortes manifs des jeunes chrétiens contre les lois socialistes sur la famille (lois depuis soutenues et bénies par la hiérarchie et par l’ONG du Vatican mondialisé, mais c’est une autre histoire), j’écrivais ces lignes :

« Deux éléments m’ont frappé dans les combats qui nous occupent, et qui opposent notre jeune élite catholique au gouvernement mondialiste aux abois : d’une part la Foi, car nous avons là une jeunesse insolente et Fidèle, audacieuse et tourmentée à la fois par l’Ennemi et la cause qu’elle défend ; la condition physique d’autre part, qui ne correspond en rien avec ce que la démocratie-marché, du sexe drogue et rock’n’roll, des centres commerciaux et des jeux vidéo, attend de la jeunesse.

L’important est la terre que nous laisserons à nos enfants ne cesse-ton de nous dire avec des citations truquées ; mais l’avenir c’est surtout les enfants que nous laisserons à la terre ! Cela les soixante-huitards et leurs accompagnateurs des multinationales l’auront mémorisé. On a ainsi vu des dizaines milliers de jeunes Français – qui pourraient demain être des millions, car il n’y a pas de raison pour que cette jeunesse ne fasse pas des petits agents de résistance ! Affronter la nuit, le froid, la pluie, les gaz, l’attente, la taule, l’insulte, la grosse carcasse du CRS casqué nourri aux amphétamines, aux RTT et aux farines fonctionnaires. Et ici encore le système tombe sur une élite physique qu’il n’avait pas prévue. Une élite qui occupe le terrain, pas les réseaux.

Cette mondialisation ne veut pas d’enfants. Elle abrutit et inhibe physiquement – vous pouvez le voir vraiment partout - des millions si ce n’est des milliards de jeunes par la malbouffe, la pollution, la destruction psychique, la techno-addiction et la distraction, le reniement de la famille, de la nation, des traditions, toutes choses très bien analysées par Tocqueville à propos des pauvres Indiens :

« En affaiblissant parmi les Indiens de l'Amérique du Nord le sentiment de la patrie, en dispersant leurs familles, en obscurcissant leurs traditions, en interrompant la chaîne des souvenirs, en changeant toutes leurs habitudes, et en accroissant outre mesure leurs besoins, la tyrannie européenne les a rendus plus désordonnés et moins civilisés qu'ils n'étaient déjà. »

Et bien les Indiens c’est nous maintenant, quelle que soit notre race ou notre religion, perclus de besoins, de faux messages, de bouffes mortes, de promotions. Et je remarquais qu’il n’y a rien de pire pour le système que d’avoir des jeunes dans la rue (on peut en payer et en promouvoir, les drôles de Nuit debout). Rien de mieux que d’avoir des feints-esprits qui s’agitent sur les réseaux sociaux.

J’ajoutais :

« Et voici qu’une jeunesse montre des qualités que l’on croyait perdues jusqu’alors, et surtout dans la France anticléricale et libertine à souhait ; des qualités telluriques, écrirai-je en attendant d’expliquer ce terme. Ce sont des qualités glanées au cours des pèlerinages avec les parents ; aux cours des longues messes traditionnelles et des nuits de prières ; au cours de longues marches diurnes et des veillées nocturnes ; de la vie naturelle et de la foi épanouie sous la neige et la pluie. On fait alors montre de résistance, de capacité physique, sans qu’il y rentre de la dégoutante obsession contemporaine du sport qui débouche sur la brutalité, sur l’oisiveté, l’obésité via l’addiction à la bière. On est face aux éléments que l’on croyait oubliés. »

Enfin je citais un grand marxiste, ce qui a souvent le don d’exaspérer les sites mondialistes et d’intriquer les sites gauchistes qui reprennent mes textes. C’est pourtant simple à comprendre : je reprends ce qui est bon (quod verum est meum est, dit Sénèque) :

HL-revUrb.jpg« Je relis un écrivain marxiste émouvant et oublié, Henri Lefebvre, dénonciateur de la vie quotidienne dans le monde moderne. Lefebvre est un bon marxiste antichrétien mais il sent cette force. D’une part l’URSS crée par manque d’ambition politique le même modèle de citoyen petit-bourgeois passif attendant son match et son embouteillage ; d’autre part la société de consommation crée des temps pseudo-cycliques, comme dira Debord et elle fait aussi semblant de réunir, mais dans le séparé, ce qui était jadis la communauté. Lefebvre rend alors un curieux hommage du vice à la vertu ; et il s’efforce alors à plus d’objectivité sur un ton grinçant.

Le catholicisme se montre dans sa vérité historique un mouvement plutôt qu’une doctrine, un mouvement très vaste, très assimilateur, qui ne crée rien, mais en qui rien ne se perd, avec une certaine prédominance des mythes les plus anciens, les plus tenaces, qui restent pour des raisons multiples acceptés ou acceptables par l’immense majorité des hommes (mythes agraires).

Le Christ s’exprime par images agraires, il ne faut jamais l’oublier. Il est lié au sol et nous sommes liés à son sang. Ce n’est pas un hasard si Lefebvre en pleine puissance communiste s’interroge sur la résilience absolue de l’Eglise et de notre message :

Eglise, Saint Eglise, après avoir échappé à ton emprise, pendant longtemps je me suis demandé d’où te venait ta puissance.

Oui, le village chrétien qui subsiste avec sa paroisse et son curé, cinquante ans après Carrefour et l’autoroute, deux mille ans après le Christ et deux cents ans après la Révolution industrielle et l’Autre, tout cela tient vraiment du miracle.

Le monde postmoderne est celui du vrai Grand Remplacement : la fin des villages de Cantenac, pour parler comme Guitry. Il a pris une forme radicale sous le gaullisme : voyez le cinéma de Bresson (Balthazar), de Godard (Week-end, Deux ou trois choses), d’Audiard (les Tontons, etc.). Le phénomène était global : voyez les Monstres de Dino Risi qui montraient l’émergence du citoyen mondialisé déraciné et décérébré en Italie. L’ahuri devant sa télé…

Il prône ce monde une absence de nature, une vie de banlieue, une cuisine de fastfood, une distraction technicisée. Enfermé dans un studio à mille euros et connecté dans l’espace virtuel du sexe, du jeu, de l’info. Et cela donne l’évangélisme, cette mouture de contrôle mental qui a pris la place du christianisme dans pas le mal de paroisses, surtout hélas en Amérique du Sud. Ce désastre est lié bien sûr à l’abandon par une classe paysanne de ses racines telluriques. Je me souviens aux bords du lac Titicaca de la puissance et de la présence catholique au magnifique sanctuaire de Copacabana (rien à voir avec la plage, mais rien) ; et de son abandon à la Paz, où justement on vit déjà dans la matrice et le conditionnement. Mais cette reprogrammation par l’évangélisme avait été décidée en haut lieu, comme me le confessa un jour le jeune curé de Guamini dans la Pampa argentine, qui évoquait Kissinger.

J’en viens au sulfureux penseur Carl Schmitt, qui cherchait à expliquer dans son Partisan, le comportement et les raisons de la force des partisans qui résistèrent à Napoléon, à Hitler, aux puissances coloniales qui essayèrent d’en finir avec des résistances éprouvées ; et ne le purent. Schmitt relève quatre critères : l’irrégularité, la mobilité, le combat actif, l’intensité de l’engagement politique. En allemand cela donne : Solche Kriterien sind: Irregularität, gesteigerte Mobilität des aktiven Kampfes und gesteigerte Intensität des politischen Engagements.

Tout son lexique a des racines latines, ce qui n’est pas fortuit, toutes qualités de ces jeunes qui refusèrent de baisser les bras ou d’aller dormir : car on a bien lu l’Evangile dans ces paroisses et l’on sait ce qu’il en coûte de trop dormir !

Schmitt reconnaît en fait la force paysanne et nationale des résistances communistes ; et il rend hommage à des peuples comme le peuple russe et le peuple espagnol : deux peuples telluriques, enracinés dans leur foi, encadrés par leur clergé, et accoutumés à une vie naturelle et dure de paysan. Ce sont ceux-là et pas les petit-bourgeois protestants qui ont donné du fil à retordre aux armées des Lumières ! Notre auteur souligne à la suite du théoricien espagnol Zamora (comme disait Jankélévitch il faudra un jour réhabiliter la philosophie espagnole) le caractère tellurique de ces bandes de partisans, prêts à tous les sacrifices, et il rappelle la force ces partisans issus d’un monde autochtone et préindustriel. Il souligne qu’une motorisation entraîne une perte de ce caractère tellurique (Ein solcher motorisierter Partisan verliert seinen tellurischen Charakter), même si bien sûr le partisan – ici notre jeune militant catholique - est entraîné à s’adapter et maîtrise mieux que tous les branchés la technologie contemporaine (mais pas moderne, il n’y a de moderne que la conviction) pour mener à bien son ouvrage.

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Schmitt reconnaît en tant qu’Allemand vaincu lui aussi en Russie que le partisan est un des derniers soldats – ou sentinelles – de la terre (einer der letzten Posten der Erde ; qu’il signifie toujours une part de notre sol (ein Stück echten Bodens), ajoutant qu’il faut espérer dans le futur que tout ne soit pas dissous par le melting-pot du progrès technique et industriel (Schmelztiegel des industrielltechnischen Fortschritts). En ce qui concerne le catholicisme, qui grâce à Dieu n’est pas le marxisme, on voit bien que le but de réification et de destruction du monde par l’économie devenue folle n’a pas atteint son but. Et qu’il en faut encore pour en venir à bout de la vieille foi, dont on découvre que par sa démographie, son courage et son énergie spirituelle et tellurique, elle n’a pas fini de surprendre l’adversaire.

Gardons une condition, dit le maître : den tellurischen Charakter. On comprend que le système ait vidé les campagnes et rempli les cités de tous les déracinés possibles. Le reste s’enferme dans son smartphone, et le tour est joué.

Bibliographie

Carl Schmitt – Du Partisan

Tocqueville – De la démocratie I, Deuxième partie, Chapitre X

Guy Debord – La Société du Spectacle

Henri Lefebvre – Critique de la vie quotidienne (Editions de l’Arche)

dimanche, 26 mars 2017

Carl Schmitt (de.wikimannia.org)

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Carl Schmitt (de.wikimannia.org)


Carl Schmitt (1888-1985) gilt als einflussreichster und dennoch umstrittenster Verfassungsrechtler seiner Zeit.

Bei staatsrechtlichen Themen taucht immer wieder die Formel vom "fürchterlichen NS-Kronjuristen" Carl Schmitt auf, des führenden Staatsrechtlers der späten Weimarer Republik. Die damit eröffneten Neben­kriegs­schau­plätze verstellen die großartige, wissenschaftliche Leistung Schmitts. Sein Werk "Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus", welches 1923 veröffentlicht wurde, ist bis heute die beste Analyse des parlamentarischen Systems.

Darin geht Schmitt der Frage auf den Grund, warum es im 19. Jahrhundert zu der nicht zwangsläufigen Verquickung von Demokratie und Parlamentarismus als vermeintliche "ultimum sapientiae" (lat. absolute Weisheit) gekommen ist.

Unter den Liberalen des 19. Jahrhunderts herrschte die Vorstellung, dass die unterschiedlich im Volk verteilten Vernunftpartikel im Parlament zusammen­treffen würden und sich dabei so in freier Konkurrenz zusammen­setzen würden, dass am Ende das beste Ergebnis herauskäme. Das ist für Schmitt ein Ausdruck von liberal-ökonomischen Prinzipien (Glaube an die Kraft des freien Marktes), welcher durch die Realität ad absurdum geführt werde.

Das Parlament sei nicht das Forum, in dem die absolute Wahrheit oder Vernunft gesucht wird, sondern vielmehr würden in ihm bereits festgelegte Positionen und kaum veränderbare Partikular­interessen auf­einander­prallen. Es käme nicht darauf an, in gemeinsamen Beratungen die beste Lösung für das Allgemeinwohl zu finden, sondern nur darauf, die eigenen Interessen und die seiner Klientel durchzusetzen, indem man die nötigen Mehrheiten organisiert und über die Minderheit herrscht.[1]


Carl Schmitt (zeitweise auch Carl Schmitt-Dorotic)[2] (1888-1985) war ein deutscher Staatsrechtler[wp], der auch als politischer Philosoph rezipiert wird. Er ist einer der bekanntesten, wenn auch umstrittensten deutschen Staats- und Völkerrechtler des 20. Jahrhunderts. Als "Kronjurist des Dritten Reiches" (Waldemar Gurian[wp]) galt Schmitt nach 1945 als kompromittiert.

CSB-1.jpgSein im Katholizismus[wp] verwurzeltes Denken kreiste um Fragen der Macht[wp], der Gewalt und der Rechts­verwirklichung. Neben dem Staats- und Verfassungsrecht streifen seine Veröffentlichungen zahlreiche weitere Disziplinen wie Politikwissenschaft[wp], Soziologie, Theologie[wp], Germanistik[wp] und Philosophie[wp]. Sein breit­gespanntes Œuvre umfasst außer juristischen und politischen Arbeiten verschiedene weitere Textgattungen, etwa Satiren, Reisenotizen, ideen­geschichtliche Untersuchungen oder germanistische Text­exegesen. Als Jurist prägte er eine Reihe von Begriffen und Konzepten, die in den wissenschaftlichen, politischen und sogar allgemeinen Sprachgebrauch eingegangen sind, etwa "Verfassungswirklichkeit"[wp], "Politische Theologie"[wp], "Freund-/Feind-Unterscheidung" oder "dilatorischer[wp] Formelkompromiss".

Schmitt wird heute zwar - vor allem wegen seines staatsrechtlichen Einsatzes für den Nationalsozialismus[wp] - als "furchtbarer Jurist"[wp], umstrittener Theoretiker und Gegner der liberalenDemokratie gescholten, zugleich aber auch als "Klassiker des politischen Denkens" (Herfried Münkler[wp][3]) gewürdigt - nicht zuletzt aufgrund seiner Wirkung auf das Staatsrecht und die Rechtswissenschaft[wp]der frühen Bundesrepublik[wp].[4]

Die prägenden Einflüsse für sein Denken bezog Schmitt von politischen Philosophen und Staatsdenkern wie Thomas Hobbes[wp][5], Niccoló Machiavelli[wp], Aristoteles[wp][6], Jean-Jacques Rousseau[wp], Juan Donoso Cortés[wp] oder Zeitgenossen wie Georges Sorel[wp][7] und Vilfredo Pareto[wp].[8]

Veröffentlichungen und Überzeugungen

Schmitt wurde durch seine sprachmächtigen und schillernden Formulierungen auch unter Nichtjuristen schnell bekannt. Sein Stil war neu und galt in weit über das wissenschaftliche Milieu hinausgehenden Kreisen als spektakulär. Er schrieb nicht wie ein Jurist, sondern inszenierte seine Texte poetisch-dramatisch und versah sie mit mythischen Bildern und Anspielungen.[9]

Seine Schriften waren überwiegend kleine Broschüren, die aber in ihrer thesenhaften Zuspitzung zur Aus­einander­setzung zwangen. Schmitt war überzeugt, dass "oft schon der erste Satz über das Schicksal einer Veröffentlichung entscheidet".[10] Viele Eröffnungs­sätze seiner Veröffentlichungen - etwa: "Es gibt einen antirömischen Affekt", "Der Begriff des Staates setzt den Begriff des Politischen voraus" oder "Souverän[wp] ist, wer über den Ausnahmezustand[wp] entscheidet" - wurden schnell berühmt.[11]


1924 erschien Schmitts erste explizit politische Schrift mit dem Titel Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus. Im Jahre 1928 legte er sein bedeutendstes wissenschaftliches Werk vor, die Verfassungslehre, in der er die Weimarer Verfassung einer systematischen juristischen Analyse unterzog und eine neue wissenschaftliche Literaturgattung begründete: neben der klassischen Staatslehre etablierte sich seitdem die Verfassungslehre[wp] als eigenständige Disziplin des Öffentlichen Rechts.

Ordnungspolitisch trat der ökonomisch informierte Jurist für einen starken Staat[wp] ein, der auf einer "freien Wirtschaft" basieren sollte. Hier traf sich Schmitts Vorstellung in vielen Punkten mit dem Ordoliberalismus[wp] oder späteren Neoliberalismus, zu deren Ideengebern er in dieser Zeit enge Kontakte unterhielt, insbesondere mit Alexander Rüstow[wp]. In einem Vortrag vor Industriellen im November 1932 mit dem Titel Starker Staat und gesunde Wirtschaft forderte er eine aktive "Entpolitisierung" des Staates und einen Rückzug aus "nichtstaatlichen Sphären":

"Immer wieder zeigt sich dasselbe: nur ein starker Staat kann entpolitisieren, nur ein starker Staat kann offen und wirksam anordnen, daß gewisse Angelegenheiten, wie Verkehr oder Rundfunk, sein Regal sind und von ihm als solche verwaltet werden, daß andere Angelegenheiten der [...] wirtschaftlichen Selbstverwaltung zugehören, und alles übrige der freien Wirtschaft überlassen wird."[12]

Bei diesen Ausführungen spielte Schmitt auf einen Vortrag Rüstows an, den dieser zwei Monate zuvor unter dem Titel Freie Wirtschaft, starker Staat gehalten hatte.[13] Rüstow hatte sich darin seinerseits auf Carl Schmitt bezogen: "Die Erscheinung, die Carl Schmitt im Anschluß an Ernst Jünger den totalen Staat genannt hat [...], ist in Wahrheit das genaue Gegenteil davon: nicht Staatsallmacht, sondern Staatsohnmacht. Es ist ein Zeichen jämmerlichster Schwäche des Staates, einer Schwäche, die sich des vereinten Ansturms der Interessentenhaufen nicht mehr erwehren kann. Der Staat wird von den gierigen Interessenten aus­einander­gerissen. [...] Was sich hier abspielt, staatspolitisch noch unerträglicher als wirtschaftspolitisch, steht unter dem Motto: 'Der Staat als Beute'."[14]

Den so aufgefassten Egoismus gesellschaftlicher Interessens­gruppen bezeichnete Schmitt (in negativer Auslegung des gleichnamigen Konzeptes von Harold Laski[wp]) als Pluralismus[wp]. Dem Pluralismus partikularer Interessen setzte er die Einheit des Staates entgegen, die für ihn durch den vom Volk gewählten Reichspräsidenten repräsentiert[wp] wurde.

In Berlin erschienen Der Begriff des Politischen (1928), Der Hüter der Verfassung (1931) und Legalität und Legitimität (1932). Mit Hans Kelsen[wp] lieferte sich Schmitt eine vielbeachtete Kontroverse über die Frage, ob der "Hüter der Verfassung" der Verfassungsgerichtshof oder der Reichspräsident sei.[15]Zugleich näherte er sich reaktionären[wp] Strömungen an, indem er Stellung gegen den Parlamentarismus[wp] bezog.

CSB-2.jpgAls Hochschullehrer war Schmitt wegen seiner Kritik an der Weimarer Verfassung zunehmend umstritten. So wurde er etwa von den der Sozialdemokratie[wp] nahestehenden Staatsrechtlern Hans Kelsen[wp] und Hermann Heller[wp] scharf kritisiert. Die Weimarer Verfassung, so meinte Schmitt, schwäche den Staat durch einen "neutralisierenden" Liberalismus und sei somit nicht fähig, die Probleme der aufkeimenden "Massendemokratie"[wp] zu lösen.

Liberalismus war für Schmitt im Anschluss an Cortés[wp] nichts anderes als organisierte Unentschiedenheit: "Sein Wesen ist Verhandeln, abwartende Halbheit, mit der Hoffnung, die definitive Auseinandersetzung, die blutige Entscheidungsschlacht könnte in eine parlamentarische Debatte verwandelt werden und ließe sich durch ewige Diskussion ewig suspendieren".[16] Das Parlament ist in dieser Perspektive der Hort der romantischen Idee eines "ewigen Gesprächs". Daraus folge: "Jener Liberalismus mit seinen Inkonsequenzen und Kompromissen lebt [...] nur in dem kurzen Interim, in dem es möglich ist, auf die Frage: Christus oder Barrabas, mit einem Vertagungsantrag oder der Einsetzung einer Untersuchungskommission zu antworten".[17]

Die Parlamentarische Demokratie[wp] hielt Schmitt für eine veraltete "bürgerliche" Regierungsmethode, die gegenüber den aufkommenden "vitalen Bewegungen" ihre Evidenz verloren habe. Der "relativen" Rationalität des Parlamentarismus trete der Irrationalismus[wp] mit einer neuartigen Mobilisierung der Massen gegenüber. Der Irrationalismus versuche gegenüber der ideologischen Abstraktheit und den "Scheinformen der liberal-bürgerlichen Regierungsmethoden" zum "konkret Existenziellen" zu gelangen. Dabei stütze er sich auf einen "Mythus vom vitalen Leben". Daher proklamierte Schmitt: "Diktatur ist der Gegensatz zu Diskussion".[18]

Als Vertreter des Irrationalismus identifizierte Schmitt zwei miteinander verfeindete Bewegungen: den revolutionären Syndikalismus[wp] der Arbeiterbewegung[wp] und den Nationalismus des italienischen Faschismus. Den italienischen Faschismus verwendete Schmitt als eine Folie, vor deren Hintergrund er die Herrschaftsformen des "alten Liberalismus" kritisierte. Dabei hatte er sich nie mit den realen Erscheinungsformen des Faschismus auseinandergesetzt. Sein Biograph Noack urteilt: "[Der] Faschismus wird von [Schmitt] als Beispiel eines autoritären Staates (im Gegensatz zu einem totalitären) interpretiert. Dabei macht er sich kaum die Mühe, die Realität dieses Staates hinter dessen Rhetorik aufzuspüren."[19]

Laut Schmitt bringt der Faschismus einen totalen Staat aus Stärke hervor, keinen totalen Staat aus Schwäche. Er ist kein "neutraler" Mittler zwischen den Interessens­gruppen, kein "kapitalistischer Diener des Privateigentums", sondern ein "höherer Dritter zwischen den wirtschaftlichen Gegensätzen und Interessen". Dabei verzichte der Faschismus auf die "überlieferten Verfassungs­klischees des 19. Jahrhunderts" und versuche eine Antwort auf die Anforderungen der modernen Massen­demokratie zu geben.

"Daß der Faschismus auf Wahlen verzichtet und den ganzen 'elezionismo haßt und verachtet, ist nicht etwa undemokratisch, sondern antiliberal und entspringt der richtigen Erkenntnis, daß die heutigen Methoden geheimer Einzelwahl alles Staatliche und Politische durch eine völlige Privatisierung gefährden, das Volk als Einheit ganz aus der Öffentlichkeit verdrängen (der Souverän verschwindet in der Wahlzelle) und die staatliche Willensbildung zu einer Summierung geheimer und privater Einzelwillen, das heißt in Wahrheit unkontrollierbarer Massen­wünsche und -ressentiments herabwürdigen."

Gegen ihre desintegrierende Wirkung kann man sich Schmitt zufolge nur schützen, wenn man im Sinne von Rudolf Smends[wp] Integrationslehre eine Rechtspflicht des einzelnen Staatsbürgers konstruiert, bei der geheimen Stimmabgabe nicht sein privates Interesse, sondern das Wohl des Ganzen im Auge zu haben - angesichts der Wirklichkeit des sozialen und politischen Lebens sei dies aber ein schwacher und sehr problematischer Schutz. Schmitts Folgerung lautet:

"Jene Gleichsetzung von Demokratie und geheimer Einzelwahl ist Liberalismus des 19. Jahrhunderts und nicht Demokratie." [20]

Nur zwei Staaten, das bolschewistische Russland und das faschistische Italien, hätten den Versuch gemacht, mit den überkommenen Verfassungs­prinzipien des 19. Jahrhunderts zu brechen, um die großen Veränderungen in der wirtschaftlichen und sozialen Struktur auch in der staatlichen Organisation und in einer geschriebenen Verfassung zum Ausdruck zu bringen. Gerade nicht intensiv industrialisierte Länder wie Russland und Italien könnten sich eine moderne Wirtschaftsverfassung geben.

In hochentwickelten Industriestaaten ist die innenpolitische Lage nach Schmitts Auffassung von dem "Phänomen der 'sozialen Gleich­gewichts­struktur' zwischen Kapital und Arbeit" beherrscht: Arbeitgeber und Arbeitnehmer stehen sich mit gleicher sozialer Macht gegenüber und keine Seite kann der anderen eine radikale Entscheidung aufdrängen, ohne eine furchtbaren Bürgerkrieg auszulösen. Dieses Phänomen sei vor allem von Otto Kirchheimer[wp] staats- und verfassungstheoretisch behandelt worden. Aufgrund der Machtgleichheit seien in den industrialisierten Staaten "auf legalem Wege soziale Entscheidungen und fundamentale Verfassungsänderungen nicht mehr möglich, und alles, was es an Staat und Regierung gibt, ist dann mehr oder weniger eben nur der neutrale (und nicht der höhere, aus eigener Kraft und Autorität entscheidende) Dritte" (Positionen und Begriffe, S. 127). Der italienische Faschismus versuche demnach, mit Hilfe einer geschlossenen Organisation diese Suprematie[wp] des Staates gegenüber der Wirtschaft herzustellen. Daher komme das faschistische Regime auf Dauer den Arbeitnehmern zugute, weil diese heute das Volk seien und der Staat nun einmal die politische Einheit des Volkes.

Die Kritik bürgerlicher Institutionen war es, die Schmitt in dieser Phase für junge sozialistische Juristen wie Ernst Fraenkel[wp], Otto Kirchheimer und Franz Neumann[wp] interessant machte.[21] Umgekehrt profitierte Schmitt von den unorthodoxen Denkansätzen dieser linken Systemkritiker. So hatte Schmitt den Titel einer seiner bekanntesten Abhandlungen (Legalität und Legitimität) von Otto Kirchheimer entliehen.[22] Ernst Fraenkel besuchte Schmitts staatsrechtliche Arbeitsgemeinschaften[23] und bezog sich positiv auf dessen Kritik des destruktiven Misstrauensvotums (Fraenkel, Verfassungsreform und Sozialdemokratie, Die Gesellschaft, 1932). Franz Neumann wiederum verfasste am 7. September 1932 einen euphorisch zustimmenden Brief anlässlich der Veröffentlichung des Buches Legalität und Legitimität (abgedruckt in: Rainer Erd, Reform und Resignation, 1985, S. 79f.). Kirchheimer urteilte über die Schrift im Jahre 1932: "Wenn eine spätere Zeit den geistigen Bestand dieser Epoche sichtet, so wird sich ihr das Buch von Carl Schmitt über Legalität und Legitimität als eine Schrift darbieten, die sich aus diesem Kreis sowohl durch ihr Zurückgehen auf die Grundlagen der Staatstheorie als auch durch ihre Zurückhaltung in den Schlussfolgerungen auszeichnet." (Verfassungsreaktion 1932, Die Gesellschaft, IX, 1932, S. 415ff.) In einem Aufsatz von Anfang 1933 mit dem Titel Verfassungsreform und Sozialdemokratie (Die Gesellschaft, X, 1933, S. 230ff.), in dem Kirchheimer verschiedene Vorschläge zur Reform der Weimarer Verfassung im Sinne einer Stärkung des Reichspräsidenten zu Lasten des Reichstags diskutierte, wies der SPD-Jurist auch auf Anfeindungen hin, der die Zeitschrift Die Gesellschaft[wp] aufgrund der positiven Anknüpfung an Carl Schmitt von kommunistischer Seite ausgesetzt war: "In Nr. 24 des Roten Aufbaus[wp] wird von 'theoretischen Querverbindungen' zwischen dem 'faschistischen Staatstheoretiker' Carl Schmitt und dem offiziellen theoretischen Organ der SPD, der Gesellschaft gesprochen, die besonders anschaulich im Fraenkelschen Aufsatz zutage treten sollen." Aus den fraenkelschen Ausführungen, in denen dieser sich mehrfach auf Schmitt bezogen hatte, ergebe sich in der logischen Konsequenz die Aufforderung zum Staatsstreich, die Fraenkel nur nicht offen auszusprechen wage. In der Tat hatte Fraenkel in der vorherigen Ausgabe der "Gesellschaft" unter ausdrücklicher Anknüpfung an Carl Schmitt geschrieben: "Es hieße, der Sache der Verfassung den schlechtesten Dienst zu erweisen, wenn man die Erweiterung der Macht des Reichspräsidenten bis hin zum Zustande der faktischen Diktatur auf den Machtwillen des Präsidenten und der hinter ihm stehenden Kräfte zurückführen will. Wenn der Reichstag zur Bewältigung der ihm gesetzten Aufgaben unfähig wird, so muß vielmehr ein anderes Staatsorgan die Funktion übernehmen, die erforderlich ist, um in gefährdeten Zeiten den Staatsapparat weiterzuführen. Solange eine Mehrheit grundsätzlich staatsfeindlicher, in sich uneiniger Parteien im Parlament, kann ein Präsident, wie immer er auch heißen mag, gar nichts anderes tun, als den destruktiven Beschlüssen dieses Parlaments auszuweichen. Carl Schmitt hat unzweifelhaft recht, wenn er bereits vor zwei Jahren ausgeführt hat, daß die geltende Reichsverfassung einem mehrheits- und handlungsfähigen Reichstag alle Rechte und Möglichkeiten gibt, um sich als den maßgebenden Faktor staatlicher Willensbildung durchzusetzen. Ist das Parlament dazu nicht im Stande, so hat es auch nicht das Recht, zu verlangen, daß alle anderen verantwortlichen Stellen handlungsunfähig werden." [24]

CSB-3.jpgTrotz seiner Kritik an Pluralismus[wp] und Parlamentarischer Demokratie stand Schmitt vor der Machtergreifung[wp] 1933 den Umsturz­bestrebungen von KPD[wp] und NSDAP[wp] gleichermaßen ablehnend gegenüber.[25] Er unterstützte die Politik Schleichers, die darauf abzielte, das "Abenteuer Nationalsozialismus" zu verhindern.[26]

In seiner im Juli 1932 abgeschlossenen Abhandlung Legalität und Legitimität forderte der Staatsrechtler eine Entscheidung für die Substanz der Verfassung und gegen ihre Feinde.[27] Er fasste dies in eine Kritik am neu­kantianischen[wp] Rechtspositivismus, wie ihn der führende Verfassungs­kommentator Gerhard Anschütz[wp] vertrat. Gegen diesen Positivismus, der nicht nach den Zielen politischer Gruppierungen fragte, sondern nur nach formaler Legalität[wp], brachte Schmitt - hierin mit seinem Antipoden Heller einig - eine Legitimität[wp] in Stellung, die gegenüber dem Relativismus[wp] auf die Unverfügbarkeit politischer Grund­entscheidungen verwies.

Die politischen Feinde der bestehenden Ordnung sollten klar als solche benannt werden, andernfalls führe die Indifferenz gegenüber verfassungsfeindlichen Bestrebungen in den politischen Selbstmord.[28] Zwar hatte Schmitt sich hier klar für eine Bekämpfung verfassungs­feindlicher Parteien ausgesprochen, was er jedoch mit einer "folgerichtigen Weiter­entwicklung der Verfassung" meinte, die an gleicher Stelle gefordert wurde, blieb unklar. Hier wurde vielfach vermutet, es handele sich um einen konservativ-revolutionären[wp]"Neuen Staat" Papen'scher[wp] Prägung, wie ihn etwa Heinz Otto Ziegler beschrieben hatte (Autoritärer oder totaler Staat, 1932).[29] Verschiedene neuere Untersuchungen argumentieren dagegen, Schmitt habe im Sinne Schleichers eine Stabilisierung der politischen Situation erstrebt und Verfassungs­änderungen als etwas Sekundäres betrachtet.[30] In dieser Perspektive war die geforderte Weiterentwicklung eine faktische Veränderung der Mächteverhältnisse, keine Etablierung neuer Verfassungsprinzipien.

1932 war Schmitt auf einem vorläufigen Höhepunkt seiner politischen Ambitionen angelangt: Er vertrat die Reichsregierung unter Franz von Papen[wp] zusammen mit Carl Bilfinger[wp] und Erwin Jacobi[wp] im Prozess um den so genannten Preußenschlag[wp] gegen die staats­streich­artig abgesetzte preußische Regierung Otto Braun[wp] vor dem Staatsgerichtshof[wp].[31] Als enger Berater im Hintergrund wurde Schmitt in geheime Planungen eingeweiht, die auf die Ausrufung eines Staats­notstands hinausliefen. Schmitt und Personen aus Schleichers Umfeld wollten durch einen intra­konstitutionellen "Verfassungs­wandel" die Gewichte in Richtung einer konstitutionellen Demokratie mit präsidialer Ausprägung verschieben. Dabei sollten verfassungs­politisch diejenigen Spielräume genutzt werden, die in der Verfassung angelegt waren oder zumindest von ihr nicht ausgeschlossen wurden. Konkret schlug Schmitt vor, der Präsident solle gestützt auf Artikel 48[wp] regieren, destruktive Misstrauens­voten[wp] oder Aufhebungsbeschlüsse des Parlaments sollten mit Verweis auf ihre fehlende konstruktive Basis ignoriert werden. In einem Positionspapier für Schleicher mit dem Titel: "Wie bewahrt man eine arbeits­fähige Präsidial­regierung vor der Obstruktion eines arbeits­unwilligen Reichstages mit dem Ziel, 'die Verfassung zu wahren'" wurde der "mildere Weg, der ein Minimum an Verfassungs­verletzung darstellt", empfohlen, nämlich: "die authentische Auslegung des Art. 54 [der das Misstrauens­votum regelt] in der Richtung der natur­gegebenen Entwicklung (Mißtrauens­votum gilt nur seitens einer Mehrheit, die in der Lage ist, eine positive Vertrauens­grundlage herzustellen)". Das Papier betonte: "Will man von der Verfassung abweichen, so kann es nur in der Richtung geschehen, auf die sich die Verfassung unter dem Zwang der Umstände und in Übereinstimmung mit der öffentlichen Meinung hin entwickelt. Man muß das Ziel der Verfassungs­wandlung im Auge behalten und darf nicht davon abweichen. Dieses Ziel ist aber nicht die Auslieferung der Volks­vertretung an die Exekutive (der Reichs­präsident beruft und vertagt den Reichstag), sondern es ist Stärkung der Exekutive durch Abschaffung oder Entkräftung von Art. 54 bezw. durch Begrenzung des Reichstages auf Gesetzgebung und Kontrolle. Dieses Ziel ist aber durch die authentische Interpretation der Zuständigkeit eines Mißtrauens­votums geradezu erreicht. Man würde durch einen erfolgreichen Präzedenzfall die Verfassung gewandelt haben." [32]

Wie stark Schmitt bis Ende Januar 1933 seine politischen Aktivitäten mit Kurt v. Schleicher verbunden hatte, illustriert sein Tagebucheintrag vom 27. Januar 1933: "Es ist etwas unglaubliches Geschehen. Der Hindenburg-Mythos ist zu Ende. Der Alte war schließlich auch nur ein Mac Mahon[wp]. Scheußlicher Zustand. Schleicher tritt zurück; Papen oder Hitler kommen. Der alte Herr ist verrückt geworden." [33]Auch war Schmitt, wie Schleicher, zunächst ein Gegner der Kanzlerschafts Hitlers. Am 30. Januar verzeichnet sein Tagebuch den Eintrag: "Dann zum Cafe Kutscher, wo ich hörte, daß Hitler Reichskanzler und Papen Vizekanzler geworden ist. Zu Hause gleich zu Bett. Schrecklicher Zustand." Einen Tag später hieß es: "War noch erkältet. Telefonierte Handelshochschule und sagte meine Vorlesung ab. Wurde allmählich munterer, konnte nichts arbeiten, lächerlicher Zustand, las Zeitungen, aufgeregt. Wut über den dummen, lächerlichen Hitler." [34]

Deutungsproblem 1933: Zäsur oder Kontinuität?

Nach dem Ermächtigungsgesetz[wp] vom 24. März 1933 präsentierte sich Schmitt als überzeugter Anhänger der neuen Machthaber. Ob er dies aus Opportunismus oder aus innerer Überzeugung tat, ist umstritten.

Ein wesentlicher Erfolg im neuen Regime war Schmitts Ernennung zum Preußischen Staatsrat[wp] - ein Titel, auf den er zeitlebens besonders stolz war. Indem Schmitt die Rechtmäßigkeit der "nationalsozialistischen Revolution" betonte, verschaffte er der Führung der NSDAP eine juristische Legitimation. Aufgrund seines juristischen und verbalen Einsatzes für den Staat der NSDAP wurde er von Zeitgenossen, insbesondere von politischen Emigranten (darunter Schüler und Bekannte), als "Kronjurist des Dritten Reiches" bezeichnet. Den Begriff prägte der frühere Schmitt-Epigone Waldemar Gurian[wp].[35]Ob dies nicht eine Überschätzung seiner Rolle ist, wird in der Literatur allerdings kontrovers diskutiert.

CSB-5.jpgSchmitts Einsatz für das neue Regime war bedingungslos. Als Beispiel kann seine Instrumentalisierung der Verfassungsgeschichte zur Legitimation des NS-Regimes dienen.[36] Viele seiner Stellungnahmen gingen weit über das hinaus, was von einem linientreuen Juristen erwartet wurde. Schmitt wollte sich offensichtlich durch besonders schneidige Formulierungen profilieren. In Reaktion auf die Morde des NS-Regimes vom 30. Juni 1934 während der Röhm-Affäre[wp] - unter den Getöteten war auch der ihm politisch nahestehende ehemalige Reichskanzler Kurt von Schleicher[wp] - rechtfertigte er die Selbstermächtigung Hitlers mit den Worten:

"Der Führer schützt das Recht vor dem schlimmsten Missbrauch, wenn er im Augenblick der Gefahr kraft seines Führertums als oberster Gerichtsherr unmittelbar Recht schafft."

Der wahre Führer sei immer auch Richter, aus dem Führertum fließe das Richtertum.[37] Diese behauptete Übereinstimmung von "Führertum" und "Richtertum" gilt als Zeugnis einer besonderen Perversion des Rechtsdenkens. Schmitt schloss den Artikel mit dem politischen Aufruf:

"Wer den gewaltigen Hintergrund unserer politischen Gesamtlage sieht, wird die Mahnungen und Warnungen des Führers verstehen und sich zu dem großen geistigen Kampfe rüsten, in dem wir unser gutes Recht zu wahren haben."

Öffentlich trat Schmitt wiederum als Rassist und Antisemit[38] hervor, als er die Nürnberger Rassengesetze[wp] von 1935 in selbst für national­sozialistische Verhältnisse grotesker Stilisierung als Verfassung der Freiheit bezeichnete (so der Titel eines Aufsatzes in der Deutschen Juristenzeitung).[39]Mit dem so genannten Gesetz zum Schutze des deutschen Blutes und der deutschen Ehre[wp], das Beziehungen zwischen Juden (in der Definition der Nationalsozialisten) und "Deutschblütigen" unter Strafe stellte, trat für Schmitt "ein neues weltanschauliches Prinzip in der Gesetzgebung" auf. Diese "von dem Gedanken der Rasse getragene Gesetzgebung" stößt, so Schmitt, auf die Gesetze anderer Länder, die ebenso grundsätzlich rassische Unterscheidungen nicht kennen oder sogar ablehnen.[40] Dieses Aufeinander­treffen unterschiedlicher weltanschaulicher Prinzipien war für Schmitt Regelungs­gegenstand des Völkerrechts[wp]. Höhepunkt der Schmittschen Parteipropaganda[wp] war die im Oktober 1936 unter seiner Leitung durchgeführte Tagung Das Judentum in der Rechtswissenschaft. Hier bekannte er sich ausdrücklich zum nationalsozialistischen Antisemitismus und forderte, jüdische Autoren in der juristischen Literatur nicht mehr zu zitieren oder jedenfalls als Juden zu kennzeichnen.

"Was der Führer über die jüdische Dialektik gesagt hat, müssen wir uns selbst und unseren Studenten immer wieder einprägen, um der großen Gefahr immer neuer Tarnungen und Zerredungen zu entgehen. Mit einem nur gefühlsmäßigen Antisemitismus ist es nicht getan; es bedarf einer erkenntnismäßig begründeten Sicherheit. [...] Wir müssen den deutschen Geist von allen Fälschungen befreien, Fälschungen des Begriffes Geist, die es ermöglicht haben, dass jüdische Emigranten den großartigen Kampf des Gauleiters Julius Streicher[wp] als etwas 'Ungeistiges' bezeichnen konnten." [41]

Etwa zur selben Zeit gab es eine nationalsozialistische Kampagne gegen Schmitt, die zu seiner weitgehenden Entmachtung führte. Reinhard Mehring schreibt dazu: "Da diese Tagung aber Ende 1936 zeitlich eng mit einer nationalsozialistischen Kampagne gegen Schmitt und seiner weitgehenden Entmachtung als Funktionsträger zusammenfiel, wurde sie - schon in nationalsozialistischen Kreisen - oft als opportunistisches Lippenbekenntnis abgetan und nicht hinreichend beachtet, bis Schmitt 1991 durch die Veröffentlichung des "Glossariums", tagebuchartiger Aufzeichnungen aus den Jahren 1947 bis 1951, auch nach 1945 noch als glühender Antisemit dastand, der kein Wort des Bedauerns über Entrechtung, Verfolgung und Vernichtung fand. Seitdem ist sein Antisemitismus ein zentrales Thema. War er katholisch-christlich oder rassistisch-biologistisch begründet? ... Die Diskussion ist noch lange nicht abgeschlossen." [42]

In dem der SS[wp] nahestehenden Parteiblatt Schwarzes Korps[wp] wurde Schmitt "Opportunismus" und eine fehlende "nationalsozialistische Gesinnung" vorgeworfen. Hinzu kamen Vorhaltungen wegen seiner früheren Unterstützung der Regierung Schleichers sowie Bekanntschaften zu Juden: "An der Seite des Juden Jacobi[wp] focht Carl Schmitt im Prozess Preußen-Reich[wp] für die reaktionäre Zwischenregierung Schleicher [sic! recte: Papen]." In den Mitteilungen zur weltanschaulichen Lage[wp] des Amtes Rosenberg[wp] hieß es, Schmitt habe "mit dem Halbjuden[wp] Jacobi gegen die herrschende Lehre die Behauptung aufgestellt, es sei nicht möglich, dass etwa eine nationalsozialistische Mehrheit im Reichstag auf Grund eines Beschlusses mit Zweidrittelmehrheit nach dem Art. 76 durch verfassungsänderndes Gesetz grundlegende politische Entscheidungen der Verfassung, etwa das Prinzip der parlamentarischen Demokratie, ändern könne, denn eine solche Verfassungsänderung sei dann Verfassungswechsel, nicht Verfassungsrevision." Ab 1936 bemühten sich demnach nationalsozialistische Organe Schmitt seiner Machtposition zu berauben, ihm eine nationalsozialistische Gesinnung abzusprechen und ihm Opportunismus nachzuweisen.[43]

Durch die Publikationen im Schwarzen Korps entstand ein Skandal, in dessen Folge Schmitt alle Ämter in den Parteiorganisationen verlor. Er blieb jedoch bis zum Ende des Krieges Professor an der Friedrich-Wilhelms-Universität in Berlin und behielt den Titel Preußischer Staatsrat.

Bis zum Ende des Nationalsozialismus arbeitete Schmitt hauptsächlich auf dem Gebiet des Völkerrechts, versuchte aber auch hier zum Stichwortgeber des Regimes zu avancieren. Das zeigt etwa sein 1939 zu Beginn des Zweiten Weltkriegs[wp] entwickelter Begriff der "völkerrechtlichen Großraum­ordnung", den er als deutsche Monroe-Doktrin[wp] verstand. Dies wurde später zumeist als Versuch gewertet, die Expansionspolitik Hitlers völkerrechtlich zu fundieren. So war Schmitt etwa an der sog. Aktion Ritterbusch[wp] beteiligt, mit der zahlreiche Wissenschaftler die nationalsozialistische Raum[wp]- und Bevölkerungspolitik beratend begleiteten.[44]

Nach 1945

Das Kriegsende erlebte Schmitt in Berlin. Am 30. April 1945 wurde er von sowjetischen Truppen[wp]verhaftet, nach kurzem Verhör aber wieder auf freien Fuß gesetzt. Am 26. September 1945 verhafteten ihn die Amerikaner und internierten ihn bis zum 10. Oktober 1946 in verschiedenen Berliner Lagern[wp]. Ein halbes Jahr später wurde er erneut verhaftet, nach Nürnberg[wp] verbracht und dort anlässlich der Nürnberger Prozesse[wp] vom 29. März bis zum 13. Mai 1947 in Einzelhaft[wp] arretiert. Während dieser Zeit wurde er von Chef-Ankläger Robert M. W. Kempner[wp] als possible defendant (potentieller Angeklagter) bezüglich seiner "Mitwirkung direkt und indirekt an der Planung von Angriffskriegen, von Kriegsverbrechen[wp] und Verbrechen gegen die Menschlichkeit[wp]" verhört. Zu einer Anklage kam es jedoch nicht, weil eine Straftat im juristischen Sinne nicht festgestellt werden konnte: "Wegen was hätte ich den Mann anklagen können?", begründete Kempner diesen Schritt später. "Er hat keine Verbrechen gegen die Menschlichkeit begangen, keine Kriegs­gefangenen getötet und keine Angriffskriege vorbereitet." [45] Schmitt selbst hatte sich in einer schriftlichen Stellungnahme als reinen Wissenschaftler beschrieben, der allerdings ein "intellektueller Abenteurer" gewesen sei und für seine Erkenntnisse einige Risiken auf sich genommen habe. Kempner entgegnete: "Wenn aber das, was Sie Erkenntnissuchen nennen, in der Ermordung von Millionen von Menschen endet?" Darauf antwortete Schmitt: "Das Christentum hat auch in der Ermordung von Millionen von Menschen geendet. Das weiß man nicht, wenn man es nicht selbst erfahren hat".[46]

CSB-6.jpgWährend seiner circa siebenwöchigen Einzelhaft[wp] im Nürnberger Kriegsverbrechergefängnis schrieb Schmitt verschiedene kürzere Texte, u. a. das Kapitel Weisheit der Zelle seines 1950 erschienenen Bandes Ex Captivitate Salus. Darin erinnerte er sich der geistigen Zuflucht, die ihm während seines Berliner Semesters Max Stirner[wp] geboten hatte. So auch jetzt wieder: "Max ist der Einzige, der mich in meiner Zelle besucht." Ihm verdanke er, "dass ich auf manches vorbereitet war, was mir bis heute begegnete, und was mich sonst vielleicht überrascht hätte."[47] Nachdem der Staatsrechtler nicht mehr selbst Angeklagter war, erstellte er auf Wunsch von Kempner als Experte verschiedene Gutachten, etwa über die Stellung der Reichsminister und des Chefs der Reichskanzlei[wp] oder über die Frage, warum das Beamtentum Adolf Hitler gefolgt ist.

Ende 1945 war Schmitt ohne jegliche Versorgungsbezüge aus dem Staatsdienst entlassen worden. Um eine Professur bewarb er sich nicht mehr, dies wäre wohl auch aussichtslos gewesen. Stattdessen zog er sich in seine Heimatstadt Plettenberg zurück, wo er weitere Veröffentlichungen - zunächst unter einem Pseudonym - vorbereitete, etwa eine Rezension des Bonner Grundgesetzes als "Walter Haustein", die in der Eisenbahnerzeitung erschien.[48] Nach dem Kriege veröffentlichte Schmitt eine Reihe von Werken, u. a. Der Nomos der Erde,[49] Theorie des Partisanen[wp][50] und Politische Theologie II, die aber nicht an seine Erfolge in der Weimarer Zeit anknüpfen konnten. 1952 konnte er sich eine Rente erstreiten, aus dem akademischen Leben blieb er aber ausgeschlossen. Eine Mitgliedschaft in der Vereinigung der Deutschen Staatsrechtslehrer[wp] wurde ihm verwehrt.

Da Schmitt sich nie von seinem Wirken im Dritten Reich[wp] distanzierte, blieb ihm eine moralische Rehabilitation, wie sie vielen anderen NS-Rechtstheoretikern zuteilwurde (zum Beispiel Theodor Maunz[wp] oder Otto Koellreutter[wp]), versagt. Zwar litt er unter der Isolation, bemühte sich allerdings auch nie um eine Entnazifizierung[wp]. In seinem Tagebuch notierte er am 1. Oktober 1949: "Warum lassen Sie sich nicht entnazifizieren? Erstens: weil ich mich nicht gern vereinnahmen lasse und zweitens, weil Widerstand durch Mitarbeit eine Nazi-Methode aber nicht nach meinem Geschmack ist." [51]

Das einzige überlieferte öffentliche Bekenntnis seiner Scham stammt aus den Verhör­protokollen von Kempner, die später veröffentlicht wurden. Kempner: "Schämen Sie sich, daß Sie damals [1933/34] derartige Dinge [wie "Der Führer schützt das Recht"] geschrieben haben?" Schmitt: "Heute selbstverständlich. Ich finde es nicht richtig, in dieser Blamage, die wir da erlitten haben, noch herumzuwühlen." Kempner: "Ich will nicht herumwühlen." Schmitt: "Es ist schauerlich, sicherlich. Es gibt kein Wort darüber zu reden." [52]

Zentraler Gegenstand der öffentlichen Vorwürfe gegen Schmitt in der Nachkriegszeit war seine Verteidigung der Röhm-Morde[wp] ("Der Führer schützt das Recht...") zusammen mit den antisemitischen Texten der von ihm geleiteten "Judentagung" 1936 in Berlin. Beispielsweise griff der Tübinger Jurist Adolf Schüle[wp] Schmitt 1959 deswegen heftig an.[53]

Zum Holocaust hat Schmitt auch nach dem Ende des nationalsozialistischen Regimes nie ein bedauerndes Wort gefunden, wie die posthum publizierten Tagebuchaufzeichnungen (Glossarium) zeigen. Stattdessen relativierte er das Verbrechen. So notierte er: "Genozide, Völkermorde, rührender Begriff."[54]Der einzige Eintrag, der sich explizit mit der Shoa befasst, lautet:

"Wer ist der wahre Verbrecher, der wahre Urheber des Hitlerismus? Wer hat diese Figur erfunden? Wer hat die Greuelepisode in die Welt gesetzt? Wem verdanken wir die 12 Mio. [sic!] toten Juden? Ich kann es euch sehr genau sagen: Hitler hat sich nicht selbst erfunden. Wir verdanken ihn dem echt demokratischen Gehirn, das die mythische Figur des unbekannten Soldaten des Ersten Weltkriegs[wp]ausgeheckt hat." [55]

Auch von seinem Antisemitismus war Schmitt nach 1945 nicht abgewichen. Als Beweis[56] hierfür gilt ein Eintrag in sein Glossarium vom 25. September 1947, in dem er den "assimilierten Juden" als den "wahren Feind" bezeichnete. Die Beweiskraft dieser Passage wurde allerdings auch mit dem Hinweis angezweifelt, es handele sich dabei lediglich um ein nicht kenntlich gemachtes Exzerpt.[57] Der Eintrag lautet:

"Denn Juden bleiben immer Juden. Während der Kommunist[wp] sich bessern und ändern kann. Das hat nichts mit nordischer Rasse usw. zu tun. Gerade der assimilierte[wp] Jude ist der wahre Feind. Es hat keinen Zweck, die Parole der Weisen von Zion[wp] als falsch zu beweisen." [58]

Schmitt flüchtete sich in Selbstrechtfertigungen und stilisierte sich abwechselnd als "christlicher Epimetheus[wp]" oder als "Aufhalter des Antichristen[wp]" (Katechon[wp][59]). Die Selbststilisierung wurde zu seinem Lebenselixier. Er erfand verschiedene, immer anspielungs- und kenntnisreiche Vergleiche, die seine Unschuld illustrieren sollten. So behauptete er etwa, er habe in Bezug auf den Nationalsozialismus wie der Chemiker und Hygieniker Max von Pettenkofer[wp] gehandelt, der vor Studenten eine Kultur von Cholera-Bakterien zu sich nahm, um seine Resistenz zu beweisen. So habe auch er, Schmitt, den Virus des Nationalsozialismus freiwillig geschluckt und sei nicht infiziert worden. An anderer Stelle verglich Schmitt sich mit Benito Cereno, einer Figur Herman Melvilles[wp] aus der gleichnamigen Erzählung von 1856, in der ein Kapitän auf dem eigenen Schiff von Meuterern gefangengehalten wird. Bei Begegnung mit anderen Schiffen wird der Kapitän von den aufständischen Sklaven gezwungen, nach außen hin Normalität vorzuspielen - eine absurde Tragikomödie, die den Kapitän als gefährlich, halb verrückt und völlig undurchsichtig erscheinen lässt. Auf dem Schiff steht der Spruch: "Folgt eurem Führer" ("Seguid vuestro jefe"). Sein Haus in Plettenberg titulierte Schmitt als San Casciano, in Anlehnung an den berühmten Rückzugsort Machiavellis[wp]. Machiavelli war der Verschwörung gegen die Regierung bezichtigt und daraufhin gefoltert worden. Er hatte die Folter mit einer selbst die Staatsbediensteten erstaunenden Festigkeit ertragen. Später war die Unschuld des Theoretikers festgestellt und dieser auf freien Fuß gesetzt worden. Er blieb dem Staat aber weiterhin suspekt, war geächtet und durfte nur auf seinem ärmlichen Landgut namens La Strada bei San Casciano zu Sant' Andrea in Percussina leben.

CSB-4pt.jpegSchmitt starb im April 1985 fast 97jährig. Seine Krankheit, Zerebralsklerose[wp], brachte in Schüben immer länger andauernde Wahnvorstellungen mit sich. Schmitt, der auch schon früher durchaus paranoide[wp] Anwandlungen gezeigt hatte, fühlte sich nun von Schallwellen und Stimmen regelrecht verfolgt. Wellen wurden seine letzte Obsession. Einem Bekannten soll er gesagt haben: "Nach dem Ersten Weltkrieg habe ich gesagt: Souverän ist, wer über den Ausnahmezustand entscheidet. Nach dem Zweiten Weltkrieg, angesichts meines Todes, sage ich jetzt: Souverän ist, wer über die Wellen des Raumes verfügt." [60] Seine geistige Umnachtung ließ ihn überall elektronische Wanzen und unsichtbare Verfolger erblicken. Am Ostersonntag 1985 starb Schmitt alleine im Evangelischen Krankenhaus in Plettenberg. Sein Grab befindet sich auf dem dortigen katholischen Friedhof.[61]

Denken

Die Etikettierungen Schmitts sind vielfältig. So gilt er als Nationalist, Gegner des Pluralismus[wp] und Liberalismus, Verächter des Parlamentarismus[wp], Kontrahent des Rechtsstaats, des Naturrechts[wp] und Neo-Absolutist[wp] im Gefolge eines Machiavelli[wp] und Thomas Hobbes[wp]. Zweifellos hatte sein Denken reaktionäre Züge: Er bewunderte den italienischen Faschismus, war in der Zeit des Nationalsozialismus[wp] als Antisemit[wp] hervorgetreten und hatte Rechtfertigungen für nationalsozialistische Verbrechen geliefert. Schmitts Publikationen enthielten zu jeder Zeit aktuell-politische Exkurse und Bezüge, zwischen 1933 und 1945 waren diese aber eindeutig nationalsozialistisch geprägt. Für die Übernahme von Rassismus und nationalsozialistischer Blut-und-Boden-Mythologie[wp]musste er ab 1933 seine in der Weimarer-Republik entwickelte Politische Theorie[wp] nur graduell modifizieren.

Trotz dieser reaktionären Aspekte und eines offenbar zeitlebens vorhandenen, wenn auch unterschiedlich ausgeprägten Antisemitismus wird Schmitt auch heutzutage ein originelles staatsphilosophisches[wp]Denken attestiert. Im Folgenden sollen seine grundlegenden Konzepte zumindest überblicksartig skizziert werden, wobei die zeitbezogenen Aspekte in den Hintergrund treten.

Schmitt als Katholik und Kulturkritiker

Als Katholik war Schmitt von einem tiefen Pessimismus gegenüber Fortschrittsvorstellungen, Fortschrittsoptimismus und Technisierung[wp] geprägt. Vor dem Hintergrund der Ablehnung wertneutraler Denkweisen und relativistischer Konzepte[wp] entwickelte er eine spezifische Kulturkritik[wp], die sich in verschiedenen Passagen durch seine Arbeiten zieht. Insbesondere das Frühwerk enthält zum Teil kulturpessimistische Ausbrüche. Das zeigt sich vor allem in einer seiner ersten Publikationen, in der er sich mit dem Dichter Theodor Däubler[wp] und seinem Epos[wp] Nordlicht (1916) auseinandersetzte. Hier trat der Jurist vollständig hinter den kunstinteressierten Kulturkommentator zurück. Auch sind gnostische[wp] Anspielungen erkennbar, die Schmitt - er war ein großer Bewunderer Marcions[wp][62] - wiederholt einfließen ließ. Ebenso deutlich wurden Hang und Talent zur Typisierung.

Theodor Däubler war Inspirator für Schmitts Kulturkritik der Moderne

Der junge Schmitt zeigte sich als Polemiker gegen bürgerliche "Sekurität" und saturierte Passivität mit antikapitalistischen Anklängen. Diese Haltung wird vor allem in seinem Buch über Theodor Däublers[wp]Nordlicht deutlich:

"Dies Zeitalter hat sich selbst als das kapitalistische, mechanistische[wp], relativistische bezeichnet, als das Zeitalter des Verkehrs, der Technik, der Organisation. In der Tat scheint der Betrieb ihm die Signatur zu geben. Der Betrieb als das großartig funktionierende Mittel zu irgendeinem kläglichen oder sinnlosen Zweck[wp], die universelle Vordringlichkeit des Mittels vor dem Zweck, der Betrieb, der den Einzelnen so vernichtet, daß er seine Aufhebung nicht einmal fühlt und der sich dabei nicht auf eine Idee, sondern höchstens ein paar Banalitäten beruft und immer nur geltend macht, daß alles sich glatt und ohne unnütze Reibung abwickeln müsse."

Für den Däubler referierenden Schmitt sind die Menschen durch ihren "ungeheuren materiellen Reichtum" nichts als "arme Teufel" geworden, ein "Schatten der zur Arbeit hinkt":

" Sie wissen alles und glauben nichts. Sie interessieren sich für alles und begeistern sich für nichts. Sie verstehen alles, ihre Gelehrten registrieren in der Geschichte, in der Natur, in der eigenen Seele. Sie sind Menschenkenner, Psychologen[wp] und Soziologen[wp] und schreiben schließlich eine Soziologie der Soziologie."

Die Betrieb und Organisation gewordene Gesellschaft, dem bedingungslosen Diktat der Zweckmäßigkeit gehorchend, lässt demzufolge "keine Geheimnisse und keinen Überschwang der Seele gelten". Die Menschen sind matt und verweltlicht und können sich zu keiner transzendenten[wp] Position mehr aufraffen:

"Sie wollen den Himmel auf der Erde, den Himmel als Ergebnis von Handel und Industrie, der tatsächlich hier auf der Erde liegen soll, in Berlin, Paris oder New York, einen Himmel mit Badeeinrichtungen, Automobilen und Klubsesseln, dessen heiliges Buch der Fahrplan wäre." [63]

CSB-7.jpgBei Däubler erschien der Fortschritt als Werk des Antichristen, des großen Zauberers. In seine Rezeption nahm Schmitt antikapitalistische Elemente auf: Der Antichrist[wp], der "unheimliche Zauberer", macht die Welt Gottes nach. Er verändert das Antlitz der Erde und macht die Natur sich untertan[wp]: "Sie dient ihm; wofür ist gleichgültig, für irgendeine Befriedigung künstlicher Bedürfnisse, für Behagen und Komfort." Die getäuschten Menschen sehen nach dieser Auffassung nur den fabelhaften Effekt. Die Natur scheint ihnen überwunden, das "Zeitalter der Sekurität" angebrochen. Für alles sei gesorgt, eine "kluge Voraussicht und Planmäßigkeit" ersetze die Vorsehung. Die Vorsehung macht der "große Zauberer" wie "irgendeine Institution":

"Er weiß im unheimlichen Kreisen der Geldwirtschaft unerklärliche Werte zu schaffen, er trägt aber auch höheren kulturellen Bedürfnissen Rechnung, ohne sein Ziel dadurch zu vergessen. [...] Gold wird zum Geld, das Geld zum Kapital[wp] - und nun beginnt der verheerende Lauf des Verstandes, der alles in seinen Relativismus hereinreißt, den Aufruhr der armen Bauern mit Witzen und Kanonen höhnisch niederschlägt und endlich über die Erde reitet als einer der apokalyptischen Reiter[wp], die der Auferstehung des Fleisches vorauseilen." [64]

Sehr viel später, nach dem Zweiten Weltkrieg, notierte Schmitt, diese apokalyptische[wp] Sehnsucht nach Verschärfung aufgreifend, in sein Tagebuch:

"Das ist das geheime Schlüsselwort meiner gesamten geistigen und publizistischen Existenz: das Ringen um die eigentlich katholische Verschärfung (gegen die Neutralisierer, die ästhetischen Schlaraffen, gegen Fruchtabtreiber, Leichenverbrenner und Pazifisten)." [65]

Ebenso wie Däublers Kampf gegen Technik, Fortschritt und Machbarkeit faszinierte Schmitt das negative Menschenbild der Gegenrevolution[wp]. Das Menschenbild Donoso Cortés[wp]' charakterisierte er etwa 1922 mit anklingender Bewunderung in seiner Politischen Theologie als universale Verachtung des Menschengeschlechts:

"Seine [Cortés'] Verachtung des Menschen kennt keine Grenzen mehr; ihr blinder Verstand, ihr schwächlicher Wille, der lächerliche Elan ihrer fleischlichen Begierden scheinen ihm so erbärmlich, daß alle Worte aller menschlichen Sprachen nicht ausreichen, um die ganze Niedrigkeit dieser Kreatur auszudrücken. Wäre Gott nicht Mensch geworden - das Reptil, das mein Fuß zertritt, wäre weniger verächtlich als ein Mensch. Die Stupidität der Massen ist ihm ebenso erstaunlich wie die dumme Eitelkeit ihrer Führer. Sein Sündenbewußtsein ist universal, furchtbarer als das eines Puritaners[wp]. [...] Die Menschheit taumelt blind durch ein Labyrinth, dessen Eingang, Ausgang und Struktur keiner kennt, und das nennen wir Geschichte; die Menschheit ist ein Schiff, das ziellos auf dem Meer umhergeworfen wird, bepackt mit einer aufrührerischen, ordinären, zwangsweise rekrutierten Mannschaft, die gröhlt und tanzt, bis Gottes Zorn das rebellische Gesindel ins Meer stößt, damit wieder Schweigen herrsche."[66]

In der Politischen Romantik weitete Schmitt 1919 die Polemik gegen den zeitgenössischen Literaturbetrieb aus den bereits 1913 erschienenen Schattenrissen zu einer grundsätzlichen Kritik des bürgerlichen[wp] Menschentyps aus. Die Romantik[wp] ist für ihn "psychologisch und historisch ein Produkt bürgerlicher Sekurität". Der Romantiker, so Schmitts Kritik, will sich für nichts mehr entscheiden, sondern nur erleben und sein Erleben stimmungsvoll umschreiben:

"Weder logische Distinktionen, noch moralische Werturteile, noch politische Entscheidungen sind ihm möglich. Die wichtigste Quelle politischer Vitalität, der Glaube an das Recht und die Empörung über das Unrecht, existiert nicht für ihn".

Hier zieht sich eine Linie durch das schmittsche Frühwerk. Das "Zeitalter der Sekurität" führt für ihn zu Neutralisierung und Entpolitisierung und damit zu einer Vernichtung der staatlichen Lebensgrundlage. Denn dem Romantiker ist "jede Beziehung zu einem rechtlichen oder moralischen Urteil disparat". Jede Norm[wp] erscheint ihm als "antiromantische Tyrannei". Eine rechtliche oder moralische Entscheidung ist dem Romantiker also sinnlos:

"Der Romantiker ist deshalb nicht in der Lage, aus bewußtem Entschluß Partei zu ergreifen und sich zu entscheiden. Nicht einmal die Staatstheorie, die von dem 'von Natur bösen' Menschen ausgeht, kann er mit romantischen Mitteln entschieden ablehnen, denn wenn sie auch noch so vielen Romantikern unsympathisch ist, so besteht doch die Möglichkeit, auch diesen bösen Menschen, die 'Bestie', zu romantisieren, sofern sie nur weit genug entfernt ist. Romantisch handelt es sich eben um Höheres als um eine Entscheidung. Die selbstbewußte Frühromantik[wp], die sich vom Schwung der andern irrationalen[wp] Bewegungen ihrer Zeit tragen ließ und zudem das absolute, weltschöpferische Ich spielte, empfand das als Überlegenheit."

Daher gibt es nach Schmitt keine politische Produktivität im Romantischen. Es wird vielmehr völlige Passivität gepredigt und auf "mystische, theologische und traditionalistische Vorstellungen, wie Gelassenheit, Demut und Dauer" verwiesen.

"Das ist also der Kern aller politischer Romantik: der Staat ist ein Kunstwerk, der Staat der historisch-politischen Wirklichkeit ist occasio zu der das Kunstwerk produzierenden schöpferischen Leistung des romantischen Subjekts, Anlaß zur Poesie und zum Roman, oder auch zu einer bloßen romantischen Stimmung." [67]

In seiner Schrift Römischer Katholizismus und politische Form (1923) analysierte Schmitt die Kirche[wp]als eine Complexio Oppositorum, also eine alles umspannende Einheit der Widersprüche. Schmitt diagnostiziert einen "anti-römischen Affekt". Dieser Affekt, der sich Schmitt zufolge durch die Jahrhunderte zieht, resultiert aus der Angst vor der unfassbaren politischen Macht des römischen Katholizismus, der "päpstlichen Maschine", also eines ungeheuren hierarchischen Verwaltungsapparats, der das religiöse Leben kontrollieren und die Menschen dirigieren will. Bei Dostojewski[wp] und seinem "Großinquisitor"[wp] erhebt sich demnach das anti-römische Entsetzen noch einmal zu voller säkularer[wp]Größe.

CSB-8.jpgZu jedem Weltreich, also auch dem römischen, gehöre ein gewisser Relativismus gegenüber der "bunten Menge möglicher Anschauungen, rücksichtslose Überlegenheit über lokale Eigenarten und zugleich opportunistische Toleranz in Dingen, die keine zentrale Bedeutung haben". In diesem Sinne sei die Kirche Complexio Oppositorum: "Es scheint keinen Gegensatz zu geben, den sie nicht umfasst". Dabei wird das Christentum nicht als Privatsache und reine Innerlichkeit[wp] aufgefasst, sondern zu einer "sichtbaren Institution" gestaltet. Ihr Formprinzip sei das der Repräsentation.[68] Dieses Prinzip der Institution sei der Wille zur Gestalt, zur politischen Form.

Die hier anklingenden strukturellen Analogien zwischen theologischen[wp] und staatsrechtlichen[wp]Begriffen verallgemeinerte Schmitt 1922 in der Politischen Theologie zu der These:

"Alle prägnanten Begriffe der modernen Staatslehre[wp] sind säkularisierte theologische Begriffe. Nicht nur ihrer historischen Entwicklung nach, weil sie aus der Theologie auf die Staatslehre übertragen wurden, sondern auch in ihrer systematischen Struktur, deren Erkenntnis notwendig ist für eine soziologische Betrachtung dieser Begriffe." [69]

Schon im Frühwerk wird erkennbar, dass Schmitt bürgerliche und liberale Vorstellungen von Staat und Politik zurückwies. Für ihn war der Staat nicht statisch und normativ, sondern vital, dynamisch und faktisch. Daher betonte er das Element der Dezision[wp] gegenüber der Deliberation[wp] und die Ausnahme gegenüber der Norm. Schmitts Staatsvorstellung war organisch, nicht technizistisch. Der politische Denker Schmitt konzentrierte sich vor allem auf soziale Prozesse, die Staat und Verfassung seiner Meinung nach vorausgingen und beide jederzeit gefährden oder aufheben konnten. Als Rechtsphilosoph behandelte er von verschiedenen Perspektiven aus das Problem der Rechtsbegründung und die Frage nach der Geltung von Normen[wp].

Schmitt als politischer Denker

Schmitts Auffassung des Staates setzt den Begriff des Politischen voraus. Anstelle eines Primats des Rechts, postuliert er einen Primat der Politik[wp]. In diesem Sinne war er, wie hier nur angemerkt sei, ein Nestor der jungen akademischen Disziplin der "Politikwissenschaft"[wp]. Der Rechtsordnung, d. h. der durch das Recht gestalteten und definierten Ordnung, geht für Schmitt immer eine andere, nämlich eine staatliche Ordnung voraus. Es ist diese vor-rechtliche Ordnung, die es dem Recht erst ermöglicht, konkrete Wirklichkeit zu werden. Mit anderen Worten: Das Politische folgt einer konstitutiven[wp] Logik, das Rechtswesen einer regulativen. Die Ordnung wird bei Schmitt durch den Souverän[wp] hergestellt, der unter Umständen zu ihrer Sicherung einen Gegner zum existentiellen Feind erklären kann, den es zu bekämpfen, womöglich zu vernichten gelte. Um dies zu tun, dürfe der Souverän die Schranken beseitigen, die mit der Idee des Rechts gegeben sind.

Der Mensch ist für den Katholiken Schmitt nicht von Natur aus gut, allerdings auch nicht von Natur aus böse, sondern unbestimmt - also fähig zum Guten wie zum Bösen. Damit wird er aber (zumindest potentiell) gefährlich und riskant. Weil der Mensch nicht vollkommen gut ist, bilden sich Feindschaften. Derjenige Bereich, in dem zwischen Freund und Feind unterschieden wird, ist für Schmitt die Politik. Der Feind ist in dieser auf die griechische Antike zurückgehenden Sicht immer der öffentliche Feind (hostis bzw. "πολέμιος"), nie der private Feind (inimicus bzw. ""εχθρός"). Die Aufforderung "Liebet eure Feinde" aus der Bergpredigt[wp] (nach der Vulgata[wp]: diligite inimicos vestros, Matthäus 5,44 und Lukas 6,27) beziehe sich dagegen auf den privaten Feind. In einem geordneten Staatswesen gibt es somit für Schmitt eigentlich keine Politik, jedenfalls nicht im existentiellen Sinne einer radikalen Infragestellung, sondern nur sekundäre Formen des Politischen (z. B. Polizei).

Unter Politik versteht Schmitt einen Intensitätsgrad der Assoziation und Dissoziation von Menschen ("Die Unterscheidung von Freund und Feind hat den Sinn, den äußersten Intensitätsgrad einer Verbindung oder Trennung, einer Assoziation oder Dissoziation zu bezeichnen"). Diese dynamische, nicht auf ein Sachgebiet begrenzte Definition eröffnete eine neue theoretische Fundierung politischer Phänomene. Für Schmitt war diese Auffassung der Politik eine Art Grundlage seiner Rechtsphilosophie. Ernst-Wolfgang Böckenförde[wp] führt in seiner Abhandlung Der Begriff des Politischen als Schlüssel zum staatsrechtlichen Werk Carl Schmitts (Abdruck in: Recht, Staat, Freiheit, 1991) dazu aus: Nur wenn die Intensität unterhalb der Schwelle der offenen Freund-Feind-Unterscheidung gehalten werde, besteht Schmitt zufolge eine Ordnung. Im anderen Falle drohen Krieg oder Bürgerkrieg. Im Kriegsfall hat man es in diesem Sinne mit zwei souveränen Akteuren zu tun; der Bürgerkrieg[wp] stellt dagegen die innere Ordnung als solche in Frage. Eine Ordnung existiert nach Schmitt immer nur vor dem Horizont ihrer radikalen Infragestellung. Die Feind-Erklärung ist dabei ausdrücklich immer an den extremen Ausnahmefall gebunden (extremis neccessitatis causa).

CSB-9.jpgSchmitt selbst gibt keine Kriterien dafür an die Hand, unter welchen Umständen ein Gegenüber als Feind zu beurteilen ist. Im Sinne seines Denkens ist das folgerichtig, da sich das Existenzielle einer vorgängigen Normierung entzieht. Als (öffentlichen) Feind fasst er denjenigen auf, der per autoritativer Setzung durch den Souverän zum Feind erklärt wird. Diese Aussage ist zwar anthropologisch realistisch, gleichwohl ist sie theoretisch problematisch. In eine ähnliche Richtung argumentiert Günther Jakobs[wp] mit seinem Konzept des Feindstrafrechts[wp] zum Umgang mit Staatsfeinden. In diesem Zusammenhang wird häufig auf Carl Schmitt verwiesen, auch wenn Jakobs Schmitt bewusst nicht zitiert hat. So heißt es bei dem Publizisten Thomas Uwer 2006: "An keiner Stelle zitiert Jakobs Carl Schmitt, aber an jeder Stelle scheint er hervor".[70] Auch die vom damaligen Innenminister Wolfgang Schäuble[wp] ausgehende öffentliche Debatte um den Kölner Rechtsprofessor Otto Depenheuer[wp] und dessen These zur Selbstbehauptung des Staates bei terroristischer Bedrohung gehören in diesen Zusammenhang, da Depenheuer sich ausdrücklich auf Schmitt beruft.[71]

Dabei bewegt sich eine politische Daseinsform bei Schmitt ganz im Bereich des Existenziellen[wp]. Normative Urteile kann man über sie nicht fällen ("Was als politische Größe existiert, ist, juristisch betrachtet, wert, dass es existiert"). Ein solcher Relativismus[wp] und Dezisionismus[wp][72] bindet eine politische Ordnung nicht an Werte wie Freiheit oder Gerechtigkeit, im Unterschied z. B. zu Montesquieu[wp], sondern sieht den höchsten Wert axiomatisch[wp] im bloßen Vorhandensein dieser Ordnung selbst. Diese und weitere irrationalistische[wp] Ontologismen[wp], etwa sein Glaube an einen "Überlebenskampf zwischen den Völkern", machten Schmitt aufnahmefähig für die Begriffe und die Rhetorik der Nationalsozialisten. Das illustriert die Grenze und zentrale Schwäche von Schmitts Begriffsbildung.

Schmitts Rechtsphilosophie

Schmitt betonte, er habe als Jurist eigentlich nur "zu Juristen und für Juristen" geschrieben. Neben einer großen Zahl konkreter verfassungs- und völkerrechtlicher Gutachten legte er auch eine Reihe systematischer Schriften vor, die stark auf konkrete Situationen hin angelegt waren. Trotz der starken fachjuristischen Ausrichtung ist es möglich, aus der Vielzahl der Bücher und Aufsätze eine mehr oder weniger geschlossene Rechtsphilosophie[wp] zu rekonstruieren. Eine solche geschlossene Lesart veröffentlichte zuletzt 2004 der Luxemburger Rechtsphilosoph und Machiavelli-Kenner Norbert Campagna.[73]

Schmitts rechtsphilosophisches Grundanliegen ist das Denken des Rechts vor dem Hintergrund der Bedingungen seiner Möglichkeit. Das abstrakte Sollen[wp] setzt demnach immer ein bestimmtes geordnetes Sein[wp] voraus, das ihm erst die Möglichkeit gibt, sich zu verwirklichen. Schmitt denkt also in genuin rechtssoziologischen[wp] Kategorien. Ihn interessiert vor allem die immer gegebene Möglichkeit, dass Rechtsnormen[wp] und Rechtsverwirklichung auseinander fallen. Zunächst müssen nach diesem Konzept die Voraussetzungen geschaffen werden, die es den Rechtsgenossen ermöglichen, sich an die Rechtsnormen zu halten. Da die "normale" Situation aber für Schmitt immer fragil und gefährdet ist, kann seiner Ansicht nach die paradoxe Notwendigkeit eintreten, dass gegen Rechtsnormen verstoßen werden muss, um die Möglichkeit einer Geltung des Rechts[wp] herzustellen. Damit erhebt sich für Schmitt die Frage, wie das Sollen sich im Sein ausdrücken kann, wie also aus dem gesollten Sein ein existierendes Sein werden kann.

Verfassung, Souveränität und Ausnahmezustand

Der herrschenden Meinung der Rechtsphilosophie, vor allem aber dem Liberalismus, warf Schmitt vor, das selbständige Problem der Rechtsverwirklichung zu ignorieren.[74] Dieses Grundproblem ist für ihn unlösbar mit der Frage nach Souveränität, Ausnahmezustand[wp] und einem Hüter der Verfassung verknüpft. Anders als liberale Denker, denen er vorwarf, diese Fragen auszublenden, definierte Schmitt den Souverän als diejenige staatliche Gewalt, die in letzter Instanz, also ohne die Möglichkeit Rechtsmittel einzulegen, entscheidet.[75] Den Souverän betrachtet er als handelndes Subjekt und nicht als Rechtsfigur. Laut Schmitt ist er nicht juristisch geformt, aber durch ihn entsteht die juristische Form, indem der Souverän die Rahmenbedingungen des Rechts herstellt. "Die Ordnung muss hergestellt sein, damit die Rechtsordnung einen Sinn hat"[76] Wie Campagna betont hängt damit allerdings auch das Schicksal der Rechtsordnung von der sie begründenden Ordnung ab.[77]

Als erster entwickelte Schmitt keine Staatslehre[wp], sondern eine Verfassungslehre[wp]. Die Verfassung bezeichnete er in ihrer positiven Substanz als "eine konkrete politische Entscheidung über Art und Form der politischen Existenz". Diesen Ansatz grenzt er mit der Formel "Entscheidung aus dem normativen Nichts" positivistisch[wp] gegen naturrechtliche[wp] Vorstellungen ab. Erst wenn der souveräne Verfassungsgeber bestimmte Inhalte als Kern der Verfassung hervorhebt, besitzt die Verfassung demnach einen substanziellen Kern.

Zum politischen Teil der modernen Verfassung gehören für Schmitt etwa die Entscheidung für die Republik[wp], die Demokratie und den Parlamentarismus[wp], wohingegen das Votum für die Grundrechte und die Gewaltenteilung den rechtsstaatlichen Teil der Verfassung ausmacht. Während der politische Teil das Funktionieren des Staates konstituiert, zieht der rechtsstaatliche Teil, so Schmitt, diesem Funktionieren Grenzen. Eine Verfassung nach Schmitts Definition hat immer einen politischen Teil, nicht unbedingt aber einen rechtsstaatlichen. Damit Grundrechte überhaupt wirksam sein können, muss es für Schmitt zunächst einen Staat geben, dessen Macht sie begrenzen. Mit diesem Konzept verwirft er implizit den naturrechtlichen Gedanken universeller Menschenrechte, die für jede Staatsform[wp] unabhängig von durch den Staat gesetztem Recht[wp] gelten, und setzt sich auch hier in Widerspruch zum Liberalismus.

Jede Verfassung steht in ihrem Kern, argumentiert Schmitt, nicht zur Disposition wechselnder politischer Mehrheiten, das Verfassungssystem ist vielmehr unveränderlich. Es sei nicht der Sinn der Verfassungs­bestimmungen über die Verfassungs­revision, ein Verfahren zur Beseitigung des Ordnungssystems zu eröffnen, das durch die Verfassung konstituiert werden soll. Wenn in einer Verfassung die Möglichkeit einer Verfassungsrevision vorgesehen ist, so solle das keine legale[wp] Methode zu ihrer eigenen Abschaffung etablieren.[78]

CSB-10.jpgDurch die politische Verfassung, also die Entscheidung über Art und Form der Existenz, entsteht demzufolge eine Ordnung, in der Normen wirksam werden können ("Es gibt keine Norm, die auf ein Chaos anwendbar wäre"). Im eigentlichen Sinne politisch ist eine Existenzform nur dann, wenn sie kollektiv ist, wenn also ein vom individuellen Gut eines jeden Mitglieds verschiedenes kollektives Gut im Vordergrund steht. In der Verfassung, so Schmitt, drücken sich immer bestimmte Werte aus, vor deren Hintergrund unbestimmte Rechtsbegriffe wie die "öffentliche Sicherheit"[wp] erst ihren konkreten Inhalt erhalten. Die Normalität[wp] könne nur vor dem Hintergrund dieser Werte überhaupt definiert werden. Das wesentliche Element der Ordnung ist dabei für Schmitt die Homogenität[wp] als Übereinstimmung aller bezüglich der fundamentalen Entscheidung hinsichtlich des politischen Seins der Gemeinschaft.[79] Dabei ist Schmitt bewusst, dass es illusorisch wäre, eine weitreichende gesellschaftliche Homogenität erreichen zu wollen. Er bezeichnet die absolute Homogenität daher als "idyllischen Fall".

Seit dem 19. Jahrhundert besteht laut Schmitt die Substanz der Gleichheit vor allem in der Zugehörigkeit zu einer bestimmten Nation[wp]. Homogenität in der modernen Demokratie ist aber nie völlig zu verwirklichen, sondern es liegt stets ein "Pluralismus"[wp] partikularer[wp] Interessen vor, daher ist nach Schmitts Auffassung die "Ordnung" immer gefährdet. Die Kluft von Sein und Sollen könne jederzeit aufbrechen. Der für Schmitt zentrale Begriff der Homogenität ist zunächst nicht ethnisch[wp] oder gar rassistisch gedacht, sondern vielmehr positivistisch: Die Nation verwirklicht sich in der Absicht, gemeinsam eine Ordnung zu bilden. Nach 1933 stellte Schmitt sein Konzept allerdings ausdrücklich auf den Begriff der "Rasse" ab.

Der Souverän schafft und garantiert in Schmitts Denken die Ordnung. Hierfür hat er das Monopol der letzten Entscheidung. Souveränität ist für Schmitt also juristisch von diesem Entscheidungsmonopol her zu definieren ("Souverän ist, wer über den Ausnahmezustand entscheidet"), nicht von einem Gewalt- oder Herrschaftsmonopol[wp] aus. Die im Ausnahmezustand getroffenen Entscheidungen (Verurteilungen, Notverordnungen[wp] etc.) lassen sich aus Schmitts Sicht hinsichtlich ihrer Richtigkeit nicht anfechten ("Dass es die zuständige Stelle war, die eine Entscheidung fällt, macht die Entscheidung [...] unabhängig von der Richtigkeit ihres Inhaltes"). Souverän ist für Schmitt dabei immer derjenige, der den Bürgerkrieg[wp] vermeiden oder wirkungsvoll beenden kann.

Die Ausnahmesituation hat daher den Charakter eines heuristischen[wp] Prinzips:

"Die Ausnahme ist interessanter als der Normalfall. Das Normale beweist nichts, die Ausnahme beweist alles; sie bestätigt nicht nur die Regel, die Regel lebt überhaupt nur von der Ausnahme. In der Ausnahme durchbricht die Kraft des wirklichen Lebens die Kruste einer in der Wiederholung erstarrten Mechanik." [80]

Repräsentation, Demokratie und Homogenität

Der moderne Staat ist für Schmitt demokratisch legitimiert. Demokratie in diesem Sinne bedeutet die "Identität von Herrscher und Beherrschten, Regierenden und Regierten, Befehlenden und Gehorchenden". Zum Wesen der Demokratie gehört die "Gleichheit", die sich allerdings nur nach innen richtet und daher nicht die Bürger anderer Staaten umfasst. Innerhalb eines demokratischen Staatswesens sind alle Staats­angehörigen gleich. Demokratie als Staatsform setzt laut Schmitt immer ein "politisch geeintes Volk" voraus. Die demokratische Gleichheit verweist damit auf eine Gleichartigkeit bzw. Homogenität. In der Zeit des Nationalsozialismus[wp] bezeichnete Schmitt dieses Postulat nicht mehr als "Gleichartigkeit", sondern als "Artgleichheit".

CSB-11.jpgDie Betonung der Notwendigkeit einer relativen Homogenität teilt Schmitt mit seinem Antipoden Hermann Heller[wp], der die Homogenität jedoch sozial und nicht politisch verstand.[81] Heller hatte sich im Jahre 1928 brieflich an Schmitt gewandt, da er eine Reihe von Gemeinsamkeiten im verfassungs­politischen Urteil bemerkt hatte. Neben der Frage der politischen Homogenität betraf das vor allem die Nutzung des Notverordnungs­paragraphen Art. 48 in der Weimarer Verfassung[wp], zu der Schmitt 1924 ein Referat auf der Versammlung der Staatsrechtslehrer gehalten hatte, mit dem Heller übereinstimmte. Der Austausch brach jedoch abrupt wieder ab, nachdem Heller Schmitts Begriff des Politischen Bellizismus[wp]vorgeworfen hatte. Schmitt hatte diesem Urteil vehement widersprochen.

In der Frage der politischen Homogenität hat sich auch das Bundesverfassungsgericht in dem berühmten Maastricht-Urteil[wp] 1993 auf eine relative politische Homogenität berufen: "Die Staaten bedürfen hinreichend bedeutsamer eigener Aufgabenfelder, auf denen sich das jeweilige Staatsvolk in einem von ihm legitimierten und gesteuerten Prozeß politischer Willensbildung entfalten und artikulieren kann, um so dem, was es - relativ homogen - geistig, sozial und politisch verbindet, rechtlichen Ausdruck zu geben." Dabei bezog es sich ausdrücklich auf Hermann Heller, obwohl der Sachverhalt inhaltlich eher Schmitt hätte zugeordnet werden müssen. Dazu schreibt der Experte für Öffentliches Recht[wp] Alexander Proelß[wp] 2003: "Die Benennung Hellers zur Stützung der Homogenitäts­voraussetzung des {Staatsvolkes geht jedenfalls fehl [...]. Das Gericht dürfte primär das Ziel verfolgt haben, der offenbar als wenig wünschenswert erschienenen Zitierung des historisch belasteten Schmitt auszuweichen."[82]

Hinter den bloß partikularen Interessen muss es, davon geht Schmitt im Sinne Rousseaus[wp] aus, eine volonté générale[wp] geben, also ein gemeinsames, von allen geteiltes Interesse. Diese "Substanz der Einheit" ist eher dem Gefühl als der Rationalität zugeordnet. Wenn eine starke und bewusste Gleichartigkeit und damit die politische Aktions­fähigkeit fehlt, bedarf es nach Schmitt der Repräsentation[wp]. Wo das Element der Repräsentation in einem Staat überwiege, nähere sich der Staat der Monarchie[wp], wo indes das Element der Identität stärker sei, nähere sich der Staat der Demokratie. In dem Moment, in dem in der Weimarer Republik[wp] der Bürgerkrieg als reale Gefahr am Horizont erschien, optierte Schmitt daher für einen souveränen Reichs­präsidenten[wp] als Element der "echten Repräsentation". Den Parlamentarismus[wp] bezeichnete er dagegen als "unechte Fassade", die sich geistes­geschichtlich[wp] überholt habe. Das Parlament lehnte er als "Hort der Parteien[wp]" und "Partikular­interessen" ab. In Abgrenzung dazu unterstrich er, dass der demokratisch legitimierte Präsident die Einheit repräsentiere. Als Repräsentant der Einheit ist aus dieser Sicht der Souverän der "Hüter der Verfassung", der politischen Substanz der Einheit.

Diktatur, Legalität und Legitimität

Der "Leviathan" - Hobbes'sches Sinnbild des modernen Staates - wird in den Augen Schmitts vom Pluralismus der indirekten Gewalten vernichtet.

Das Instrument, mit dem der Souverän die gestörte Ordnung wiederherstellt, ist Schmitt zufolge die "Diktatur"[wp], die nach seiner Auffassung das Rechtsinstitut der Gefahrenabwehr[wp] darstellt (vgl. Artikel Ausnahmezustand[wp]). Eine solche Diktatur, verstanden in der altrömischen Grundbedeutung[wp] als Notstandsherrschaft[wp] zur "Wiederherstellung der bedrohten Ordnung", ist nach Schmitts Beurteilung zwar durch keine Rechtsnorm gebunden, trotzdem bildet das Recht immer ihren Horizont. Zwischen dieser Diktatur und der "Rechtsidee" besteht dementsprechend nur ein relativer, kein absoluter Gegensatz.

Die Diktatur, so Schmitt, sei ein bloßes Mittel, um einer gefährdeten "Normalität" wieder diejenige Stabilität zu verleihen, die für die Anwendung und die Wirksamkeit des Rechts erforderlich ist. Indem der Gegner sich nicht mehr an die Rechtsnorm hält, wird die Diktatur als davon abhängige Antwort erforderlich. Die Diktatur stellt somit die Verbindung zwischen Sein und Sollen (wieder) her, indem sie die Rechtsnorm vorübergehend suspendiert, um die "Rechtsverwirklichung" zu ermöglichen. Schmitt:

"Dass jede Diktatur die Ausnahme von einer Norm enthält, besagt nicht zufällige Negation einer beliebigen Norm. Die innere Dialektik[wp] des Begriffs liegt darin, dass gerade die Norm negiert wird, deren Herrschaft durch die Diktatur in der geschichtlich-politischen Wirklichkeit gesichert werden soll."[83]

Das "Wesen der Diktatur" sieht er im Auseinanderfallen von Recht und Rechtsverwirklichung:

"Zwischen der Herrschaft der zu verwirklichenden Norm und der Methode ihrer Verwirklichung kann also ein Gegensatz bestehen. Rechtsphilosophisch[wp] liegt hier das Wesen der Diktatur, nämlich der allgemeinen Möglichkeit einer Trennung von Normen des Rechts und Normen der Rechtsverwirklichung." [83][84]

Schmitt moniert, dass die "liberale Rechtsphilosophie" diesem selbständigen bedeutenden "Problem der Rechtsverwirklichung"[85] mit Ignoranz begegne, da ihre Vertreter auf den "Normalfall" fixiert seien und den Ausnahmefall ausblendeten. Campagna fasst diese Schmittsche Position wie folgt zusammen:

"Im Normalfall braucht man die Rechtsnormen nicht zu verletzen, um die Verwirklichung dieser Normen zu sichern, aber weil dieser Normalfall, bei einer realistischen Betrachtung der menschlichen Angelegenheiten, nicht auf alle Ewigkeiten abgesichert ist, muß man immer mit der Möglichkeit rechnen, daß die Rechts- und die Rechtsverwirklichungsnormen sich trennen werden, daß man also gegen die Rechtsnormen verstoßen muß, um die Möglichkeit eines rechtlichen Zusammenlebens zu garantieren." [74]

CSB-12.jpgAnalog können nach Schmitt auch Legalität[wp] und Legitimität[wp] auseinanderfallen. Dies diagnostizierte er etwa in der Endphase der Weimarer Republik. Ein nur noch funktionalistisches Legalitätsystem, so Schmitt 1932, drohe, sich gegen sich selbst zu wenden und damit die eigene Legalität und Legitimität letztlich selbst aufzuheben: Bei Richard Thoma[wp] "ist wenigstens noch das bürgerlich-rechtliche System selbst mit seinem Gesetzes- und Freiheitsbegriff heilig, die liberale Wertneutralität[wp] wird als ein Wert angesehen und der politische Feind - Faschismus und Bolschewismus[wp] - offen genannt. Anschütz[wp]dagegen geht die Wertneutralität eines nur noch funktionalistischen Legalitätssystems bis zur absoluten Neutralität gegen sich selbst und bietet den legalen Weg zur Beseitigung der Legalität selbst, sie geht also in ihrer Neutralität bis zum Selbstmord." [86] Diese Kritik an dem Wertrelativismus der herrschenden Lehre verdichtete Schmitt in einer berühmten Formulierung:

"Eine Verfassung, die es nicht wagen würde, sich hier [also bei drohender Beseitigung des Legalitätssystems selbst] zu entscheiden, sondern statt einer substanzhaften Ordnung den kämpfenden Klassen, Richtungen und Zielsetzungen die Illusion geben wollte, daß sie legal auf ihre Rechnung kommen, alle ihre Parteiziele legal erreichen und alle ihren Gegner legal vernichten können, ist heute nicht einmal mehr als dilatorischer Formelkompromiß möglich und würde im praktischen Ergebnis auch ihre Legalität und Legitimität zerstören. Sie müßte in dem kritischen Augenblick, in dem eine Verfassung sich zu bewähren hat, notwendigerweise versagen."

Legal ist eine Handlung, wenn sie sich restlos einer allgemeinen Norm des positiven Rechts[wp]subsumieren lässt. Die Legitimität hingegen ist für Schmitt nicht unbedingt an diese Normen gebunden. Sie kann sich auch auf Prinzipien beziehen, die dem positiven Recht übergeordnet sind, etwa das "Lebensrecht des Staates" oder die Staatsräson. Die Diktatur beruft sich dementsprechend auf die Legitimität. Sie ist nicht an positive Normierungen gebunden, sondern nur an die Substanz der Verfassung, also ihre Grundentscheidung über Art und Form der politischen Existenz. Gemäß Schmitt muss sich die Diktatur selbst überflüssig machen, d. h. sie muss die Wirklichkeit so gestalten, dass der Rückgriff auf eine außerordentliche Gewalt überflüssig wird. Die Diktatur ist bei Vorliegen einer Verfassung notwendig kommissarisch, da sie keinen anderen Zweck verfolgen kann, als die Verfassung wieder in Gültigkeit zu bringen. Der Diktator ist somit eine konstituierte Gewalt (pouvoir constitué), die sich nicht über den Willen der konstituierenden Gewalt (pouvoir constituant) hinwegsetzen kann. In Abgrenzung davon gibt es laut Schmitt eine "souveräne Diktatur", bei der der Diktator erst eine Situation herstellt, die sich aus seiner Sicht zu bewahren lohnt. Hier hatte Schmitt vor allem den souveränen Fürsten[wp] vor Augen. Dies bedeutet in der Konsequenz, was Schmitt auch formulierte: Souveräne Diktatur und Verfassung schließen einander aus.

Krieg, Feindschaft, Völkerrecht

Homogenität, die nach Schmitt zum Wesenskern der Demokratie gehört, setzt auf einer höheren Ebene immer Heterogenität[wp] voraus. Einheit gibt es nur in Abgrenzung zu einer Vielheit. Jedes sich demokratisch organisierende Volk kann dies folglich nur im Gegensatz zu einem anderen Volk vollziehen. Es existiert für dieses Denken also immer ein "Pluriversum" verschiedener Völker und Staaten. Wie das staatliche Recht, so setzt für Schmitt auch das internationale Recht ("Völkerrecht"[wp]) eine konkrete Ordnung voraus.

Diese konkrete Ordnung war seit dem Westfälischen Frieden[wp] von 1648 die internationale Staatenordnung als Garant einer internationalen Rechtsordnung. Da Schmitt den Untergang dieser Staatenordnung konstatiert, stellt sich für ihn jedoch die Frage nach einem neuen konkreten Sein internationaler Rechtssubjekte, das eine "seinswirkliche" Grundlage für eine internationale Rechtsordnung garantieren könne.

Historisch wurde laut Schmitt eine solche Ordnung immer durch Kriege souveräner Staaten hergestellt, die ihre politische Idee als Ordnungsfaktor im Kampf gegen andere durchsetzen wollten. Erst wenn die Ordnungsansprüche an eine Grenze gestoßen sind, etabliere sich in einem Friedensschluss ein stabiles Pluriversum, also eine internationale Ordnung ("Sinn jedes nicht sinnlosen Krieges besteht darin, zu einem Friedensschluss zu führen"). Es muss erst eine als "normal" angesehene Teilung des Raumes gegeben sein, damit es zu einer wirksamen internationalen Rechtsordnung kommen kann.

Durch ihre politische Andersartigkeit sind die pluralen Gemeinwesen füreinander immer potentielle Feinde, solange keine globale Ordnung hergestellt ist. Schmitt hält jedoch entschieden an einem eingeschränkten Feindbegriff fest und lässt damit Platz für die Idee des Rechts. Denn nur mit einem Gegenüber, der als (potentieller) Gegner und nicht als absoluter Feind betrachtet wird, ist ein Friedensschluss möglich. Hier stellt Schmitt die Frage nach der "Hegung des Krieges". Das ethische Minimum der Rechtsidee ist für ihn dabei das Prinzip der Gegenseitigkeit. Dieses Element dürfe in einem Krieg niemals wegfallen, das heißt, es müssten auch dem Feind im Krieg immer dieselben Rechte zuerkannt werden, die man für sich selbst in Anspruch nimmt.

Schmitt unterscheidet dabei folgende Formen der Feindschaft[wp]: konventionelle Feindschaft, wirkliche Feindschaft und absolute Feindschaft. Zur absoluten Feindschaft komme es paradoxerweise etwa dann, wenn sich eine Partei den Kampf für den Humanismus auf ihre Fahne geschrieben habe. Denn wer zum Wohle oder gar zur Rettung der gesamten Menschheit kämpfe, müsse seinen Gegner als "Feind der gesamten Menschheit" betrachten und damit zum "Unmenschen" deklarieren. In Abwandlung Pierre-Joseph Proudhons[wp] Wort "Wer Gott sagt, will betrügen", heißt es bei Schmitt: "Wer Menschheit sagt, will betrügen".[87]

"Die Führung des Namens 'Menschheit', die Berufung auf die Menschheit, die Beschlagnahme dieses Wortes, alles das könnte, weil man nun einmal solche erhabenen Namen nicht ohne gewisse Konsequenzen führen kann, nur den schrecklichen Anspruch manifestieren, daß dem Feind die Qualität des Menschen abgesprochen, daß er hors-la-loi [Außerhalb des Rechts] und hors L'humanité erklärt und dadurch der Krieg zur äußersten Unmenschlichkeit getrieben werden soll."[87]

Die Verallgemeinerung dieser These vollzog Schmitt 1960 in einem Privatdruck mit dem Titel Die Tyrannei der Werte. Hier lehnte er den gesamten Wertediskurs ab:

"Wer Wert sagt, will geltend machen und durchsetzen. Tugenden[wp] übt man aus; Normen wendet man an; Befehle werden vollzogen; aber Werte werden gesetzt und durchgesetzt. Wer ihre Geltung behauptet, muss sie geltend machen. Wer sagt, dass sie gelten, ohne dass ein Mensch sie geltend macht, will betrügen."

Den konventionellen Krieg bezeichnete Schmitts als gehegten Krieg (ius in bello[wp]), an dem Staaten und ihre regulären Armeen beteiligt, sonst niemand. Auf diesem Prinzip basieren, so Schmitt, auch die nach dem Zweiten Weltkrieg abgeschlossenen vier Genfer Konventionen[wp], da sie eine souveräne Staatlichkeit zugrunde legen. Schmitt würdigte diese Konventionen als "Werk der Humanität", stellt aber zugleich fest, dass sie von einer Wirklichkeit ausgingen, die als solche nicht mehr existiere. Daher könnten sie ihre eigentliche Funktion, eine wirksame Hegung des Krieges zu ermöglichen, nicht mehr erfüllen. Denn mit dem Verschwinden des zugrundeliegenden Seins habe auch das Sollen keine Grundlage mehr.

Den Gedanken, dass Frieden nur durch Krieg möglich ist, da nur der echte Friedens­schluss nach einem Krieg eine konkrete Ordnung herbeiführen kann, formulierte Schmitt zuerst im Zusammenhang der Auseinandersetzung mit dem Ausgang des Ersten Weltkrieges[wp]. Auf der Grundlage dieser Vorstellung proklamierte er die provozierende Alternative: "Frieden oder Pazifismus". Als Beispiel für einen Friedens­schluss, der keine neue Ordnung im Sinne eines Friedens­schlusses brachte, betrachtete Schmitt den Versailler Vertrag[wp] und die Gründung des Genfer Völkerbunds[wp] 1920. Der Völkerbund führte, aus Schmitts Perspektive, nur die Situation des Krieges fort. Er erschien ihm daher wie eine Fortsetzung dieses Krieges mit anderen Mitteln.[88] Dazu schrieb er während des Zweiten Weltkriegs 1940:

"In Wahrheit hat die Genfer Kombination den Namen eines Bundes, einer Sozietät oder Liga im Sinne einer politischen Vereinigung nur insofern verdient, als sie den Versuch machte, die Weltkriegskoalition fortzusetzen und darin auch die im Weltkrieg neutralen Staaten einzubeziehen." [89]

CSB-13.gifKonkret bezog sich Schmitt auf die Ruhrbesetzung[wp] durch französische und belgische Truppen im Januar 1923, mit der beide Länder auf einen Streit um die Höhe der deutschen Reparationen[wp]reagierten, um sich eine Schlüsselstellung in Bezug auf die noch unbesetzten Teile des Ruhrgebiets sowie die wichtigsten Handelszentren zu verschaffen. Begründet wurde diese Aktion mit der Sicherung der "Heiligkeit der Verträge". Dies geißelte Schmitt als ideologische Verschleierung handfester Interessenpolitik. Eine solche Juridifizierung der Politik, die nur die Machtansprüche der starken Staaten bemäntele, bezeichnete er als Hauptgefahr für den Frieden. Sie sei eine Art verdeckter Fortsetzung des Krieges, die durch den gewollten Mangel an Sichtbarkeit des Feindes zu einer Steigerung der Feindschaft im Sinne des absoluten Feindbegriffs und letztlich zu einem diskriminierenden Kriegsbegriff führe. Eine konkrete Ordnung werde durch einen solchen "unechten" Frieden nicht geschaffen. Statt einer Ordnung entstehe die Fassade einer Ordnung, hinter der die politischen Ziele changieren:

"Im übrigen fehlt [dem Völkerbund] jeder konstruktive Gedanke, jede Gemeinschaftssubstanz, daher auch jede politische Folgerichtigkeit und jede Identität und Kontinuität im rechtlichen Sinne. Der politische Inhalt des Genfer Völkerbundes hat oft gewechselt, und die unter Beibehaltung derselben Etikette weitergeführte Genfer Veranstaltung hat sich [bis 1936] mindestens sechsmal in ein politisches und daher auch völkerrechtliches aliud[wp] verwandelt." [89]

Auflösung der internationalen Ordnung: Großraum, Pirat und Partisan

Schmitt diagnostiziert ein Ende der Staatlichkeit ("Die Epoche der Staatlichkeit geht zu Ende. Darüber ist kein Wort mehr zu verlieren"). Das Verschwinden der Ordnung souveräner Staatlichkeit sieht er in folgenden Faktoren: Erstens lösen sich die Staaten auf, es entstehen neuartige Subjekte internationalen Rechts; zweitens ist der Krieg ubiquitär - also allgegenwärtig und allverfügbar - geworden und hat damit seinen konventionellen und gehegten Charakter verloren.

Der Freibeuter - heute in seiner zeitgenössischen Variante als somalischer Pirat[wp] - ist in Schmitts Kategorien der Vorläufer des modernen Terroristen.

An die Stelle des Staates treten Schmitt zufolge mit der Monroe-Doktrin[wp] 1823 neuartige "Großräume" mit einem Interventionsverbot für raumfremde Mächte. Hier habe man es mit neuen Rechtssubjekten zu tun: Die USA[wp] zum Beispiel sind laut Schmitt seit der Monroe-Doktrin kein gewöhnlicher Staat mehr, sondern eine führende und tragende Macht, deren politische Idee in ihren Großraum, nämlich die westliche Hemisphäre ausstrahlt. Damit ergibt sich eine Einteilung der Erde in mehrere durch ihre geschichtliche, wirtschaftliche und kulturelle Substanz erfüllte Großräume. Den seit 1938 entwickelten Begriff des Großraums füllte Schmitt 1941 nationalsozialistisch; die politische Idee des deutschen Reiches sei die Idee der "Achtung jedes Volkes als einer durch Art und Ursprung, Blut und Boden[wp]bestimmte Lebenswirklichkeit". An die Stelle eines Pluriversums von Staaten tritt für Schmitt also ein Pluriversum von Großräumen.

Gleichzeitig geht den Staaten, so Schmitts Analyse, das Monopol der Kriegsführung (ius ad bellum[wp]) verloren. Es träten neue, nichtstaatliche Kombattanten hervor, die als kriegsführende Parteien aufträten. Im Zentrum dieser neuen Art von Kriegsführung sieht Schmitt Menschen, die sich total mit dem Ziel ihrer Gruppe identifizieren und daher keine einhegenden Grenzen für die Verwirklichung dieser Ziele kennen. Sie sind bereit Unbeteiligte, Unschuldige, ja sogar sich selbst zu opfern. Damit werde die Sphäre der Totalität[wp] betreten und damit auch der Boden der absoluten Feindschaft.

Nach Schmitt hat man es nunmehr mit dem Partisanen[wp] zu tun, der sich durch vier Merkmale auszeichnet: Irregularität, starkes politisches Engagement, Mobilität und "tellurischen Charakter" (Ortsgebundenheit). Der Partisan ist nicht mehr als regulärer Kombattant erkennbar, er trägt keine Uniform, er verwischt bewusst den Unterschied zwischen Kämpfern und Zivilisten, der für das Kriegsrecht konstitutiv ist. Durch sein starkes politisches Engagement unterscheidet sich der Partisan vom Piraten[wp].[90] Dem Partisan geht es in erster Linie darum, für politische Ziele zu kämpfen, mit denen er sich restlos identifiziert. Der lateinische Ursprung des Wortes Partisan sei, was oft vergessen werde, "Anhänger einer Partei".

Der Partisan ist durch seine Irregularität hochgradig mobil. Anders als stehende Heere kann er rasch und unerwartet zuschlagen und sich ebenso schnell zurückziehen. Er agiert nicht hierarchisch und zentral, sondern dezentral und in Netzwerken. Sein tellurischer Charakter zeigt sich nach Schmitt darin, dass der Partisan sich an einen konkreten Ort gebunden fühle, den er verteidige. Der verortete oder ortsgebundene Partisan führt primär einen Verteidigungskrieg[wp]. Dieses letzte Merkmal beginnt der Partisan, so Schmitt, aber zu verlieren. Der Partisan (oder, wie man heute sagen würde: der Terrorist) wird zu einem "Werkzeug einer mächtigen Weltpolitik treibenden Zentrale, die ihn im offenen oder im unsichtbaren Krieg einsetzt und nach Lage der Dinge wieder abschaltet".

Während der konventionelle Feind im Sinne des gehegten Krieges einen bestimmten Aspekt innerhalb eines von allen Seiten akzeptierten Rahmens in Frage stellt, stelle der wirkliche Feind den Rahmen als solchen in Frage. Der nicht mehr ortsgebundene Partisan verkörpert die Form der absoluten Feindschaft und markiert somit den Übergang zu einem totalen Krieg. Für Schmitt erfolgte der Übergang vom "autochthonen[wikt] zum weltaggressiven Partisan" historisch mit Lenin[wp]. Es geht, betont Schmitt, in den neuen Kriegen, die von der absoluten Feindschaft der Partisanen geprägt sind, nicht mehr darum, neue Gebiete zu erobern, sondern eine Existenzform wegen ihrer angeblichen Unwertigkeit zu vernichten. Aus einer kontingent definierten Feindschaft wird eine ontologisch[wp] oder intrinsisch[wp] bestimmte. Mit einem solchen Feind ist kein gehegter Krieg und auch kein Friedensschluss mehr möglich. Schmitt nennt das im Unterschied zum "paritätisch geführten Krieg" den "diskriminierend geführten Krieg". Sein diskriminierender Kriegsbegriff bricht mit der Reziprozität und beurteilt den Feind in Kategorien des Gerechten und Ungerechten. Wird der Feindbegriff in einem solchen Sinne total, wird die Sphäre des Politischen verlassen und die des Theologischen betreten, also die Sphäre der letzten, nicht mehr verhandelbaren Unterscheidung. Der Feindbegriff des Politischen ist nach Schmitt ein durch die Idee des Rechts begrenzter Begriff. Es ist demzufolge gerade die Abwesenheit einer ethischen[wp] Bestimmung des Kriegsziels, welche eine "Hegung des Krieges" erst ermöglicht, weil ethische Postulate, da sie grundsätzlich nicht verhandelbar sind, zur "theologischen Sphäre" gehören.

Der Nomos der Erde

Nach dem Wegfall der Ordnung des Westfälischen Friedens stellt sich für Schmitt die Frage nach einer neuen seinsmäßigen Ordnung, die das Fundament eines abstrakten Sollens werden kann. Für ihn ist dabei klar, dass es keine "One World Order" geben kann. Die Entstaatlichung der internationalen Ordnung dürfe nicht in einen Universalismus münden. Laut Schmitt ist allein eine Welt der Großräume mit Interventionsverbot für andere Großmächte in der Lage, die durch die Westfälische Ordnung garantierte Hegung des Krieges zu ersetzen.

Er konstruiert 1950 einen "Nomos[wp] der Erde", der - analog zur souveränen Entscheidung - erst die Bedingungen der Normalität schafft, die für die Verwirklichung des Rechts notwendig sind. Somit ist dieser räumlich verstandene Nomos der Erde für Schmitt die Grundlage für jede völkerrechtliche Legalität. Ein wirksames Völkerrecht wird nach seiner Auffassung immer durch eine solche konkrete Ordnung begründet, niemals durch bloße Verträge. Sobald auch nur ein Element der Gesamtordnung diese Ordnung in Frage stelle, sei die Ordnung als solche in Gefahr.

Der erste Nomos war für Schmitt lokal, er betraf nur den europäischen Kontinent. Nach der Entdeckung Amerikas sei der Nomos global geworden, da er sich nun auf die ganze Welt ausgedehnt habe. Für den neuen Nomos der Erde, der sich für Schmitt noch nicht herausgebildet hat, sieht die Schmittsche Theorie drei prinzipielle Möglichkeiten: a) eine alles beherrschende Macht unterwirft sich alle Mächte, b) der Nomos, in dem sich souveräne Staaten gegenseitig akzeptieren, wird wiederbelebt, c) der Raum wird zu einem neuartigen Pluriversum von Großmächten.

CSB-14.jpegDie Verwirklichung der zweiten Variante hält Schmitt für unwahrscheinlich. Die erste Variante lehnt er entschieden ab ("Recht durch Frieden ist sinnvoll und anständig; Friede durch Recht ist imperialistischer[wp] Herrschaftsanspruch"). Es dürfe nicht sein, dass "egoistische Mächte", womit er vor allem die Vereinigten Staaten im Blick hat, die Welt unter ihre Machtinteressen stellen. Das Ius belli dürfe nicht zum Vorrecht einer einzigen Macht werden, sonst höre das Völkerrecht auf, paritätisch und universell zu sein. Somit bleibt gemäß Schmitt nur das Pluriversum einiger weniger Großräume. Voraussetzung dafür wäre in der Konsequenz des Schmittschen Denkens allerdings ein globaler Krieg, da nur eine kriegerische Auseinandersetzung geeignet ist, einen neuen Nomos der Erde zu begründen.

Rezeption

Nach 1945 war Schmitt wegen seines Engagements für den Nationalsozialismus[wp] akademisch und publizistisch isoliert. Er wurde neben Ernst Jünger[wp], Arnold Gehlen[wp], Hans Freyer[wp] und Martin Heidegger[wp] als intellektueller Wegbereiter und Stütze des NS-Regimes angesehen.

Dennoch hatte er zahlreiche Schüler, die das juristische Denken der frühen Bundesrepublik mitprägten. Dazu gehören Ernst Rudolf Huber[wp], Ernst Forsthoff[wp], Werner Weber[wp], Roman Schnur[wp], Hans Barion[wp] und Ernst Friesenhahn[wp], die alle außer Friesenhahn selbst durch längeres nationalsozialistisches Engagement belastet waren.[91] Diese Schüler widmeten dem Jubilar jeweils zum 70. und 80. Geburtstag eine Festschrift, um ihm öffentlich ihre Reverenz zu erweisen (Festschrift zum 70. Geburtstag für Carl Schmitt, 1959 und Epirrhosis. Festgabe für Carl Schmitt zum 80. Geburtstag, 1968). Weitere Schüler Schmitts waren etwa der als Kanzlerberater bekannt gewordene politische Publizist Rüdiger Altmann[wp] oder der einflussreiche Publizist Johannes Gross[wp]. Jüngere Verfassungsjuristen wie Ernst-Wolfgang Böckenförde[wp][92] oder Josef Isensee[wp][93] wurden nachhaltig von Carl Schmitt beeinflusst und lassen sich der von ihm begründeten Denktradition zuordnen, die gelegentlich auch als Schmitt-Schule[wp] bezeichnet wird.[94] Bekannt ist das an Schmitt angelehnte Diktum Böckenfördes[wp], dass der Staat von Voraussetzungen lebe, die er selbst nicht garantieren kann.[95] Verschiedene öffentliche Persönlichkeiten suchten in der Frühzeit der Bundesrepublik den Rat oder die juristische Expertise Schmitts, darunter etwa der SPIEGEL[wp]-Herausgeber Rudolf Augstein[wp] 1952.[96]

Schmitt wirkte aber auch in andere Disziplinen hinein. In der Geschichtswissenschaft[wp] waren vor allem Reinhart Koselleck[wp] (Kritik und Krise) und Christian Meier[wp] (Die Entstehung des Politischen bei den Griechen) von Schmitt beeinflusst, in der Soziologie[wp] Hanno Kesting[wp] (Geschichtsphilosophie und Weltbürgerkrieg); in der Philosophie rezipierten Odo Marquard[wp] (Individuum und Gewaltenteilung), Hermann Lübbe[wp] (Der Streit um Worte: Sprache und Politik) und Alexandre Kojève[wp] (Hegel, eine Vergegenwärtigung seines Denkens) schmittsche Theoreme. Auch Hans Blumenberg[wp] (Legitimität der Neuzeit) beschäftigte sich in seinem Werk an verschiedenen Stellen teils kritisch, teils anerkennend mit Schmitt.[97] In der Religionswissenschaft[wp] war es vor allem Jacob Taubes[wp] (Abendländische Eschatologie[wp]), der an Schmitts Politischer Theologie anknüpfte.[98]

Eine besonders diffizile Frage in der Wirkungsgeschichte Carl Schmitts ist dessen Rezeption in der intellektuellen und politischen Linken[wp]. Sie war Gegenstand scharfer Kontroversen.[99] Auf der einen Seite galt Schmitt als eine Art intellektueller Hauptgegner - Ernst Bloch[wp] bezeichnete ihn etwa als eine der "Huren des völlig mortal gewordenen, des nationalsozialistischen Absolutismus"[100] -, auf der anderen Seite gab es argumentative Übereinstimmungen, inhaltliche Anklänge und versteckte Bezugnahmen.

In einem breit diskutierten[101] Aufsatz über Schmitt und die Frankfurter Schule argumentierte Ellen Kennedy 1986, dass Jürgen Habermas[wp] in seiner Parlamentarismuskritik Schmittsche Argumentationsfiguren verwendet habe.[102] In Iring Fetschers[wp] Frankfurter Seminaren um 1968 spielte Schmitt - wie Eike Hennig[wp] berichtet - eine große Rolle.[103] Reinhard Mehring schrieb dazu 2006: "Ein Einfluss von Schmitt auf Habermas wurde wiederholt diskutiert. Er lag in der Frankfurter Luft. Schmitt war so etwas wie ein Hausjurist der Kritischen Theorie und Frankfurter Schule. Otto Kirchheimer und Franz Neumann, Ernst Fraenkel und Walter Benjamin hatten alle vor 1933 ihren Schmitt gelesen. Kirchheimer hatte bei Schmitt promoviert; er und Neumann trafen Schmitt in Berlin häufiger. Dessen politische Betrachtung des Rechts und der Volkssouveränität war ihnen für die Ausarbeitung einer sozialistischen Rechtstheorie interessant. Früh kritisierte Kirchheimer allerdings Schmitts Begriffsrealismus, worunter er eine geschichtsphilosophische Überspannung juristischer Kategorien verstand. Neumann adaptierte Schmitts rechtstheoretische Diagnose einer Auflösung des rechtsstaatlichen Gesetzesbegriffs dann auch für seine Beschreibung des nationalsozialistischen Behemoth. Seitdem gab es einen juristischen Links-Schmittismus, dem Habermas in Frankfurt begegnete."[104]

Der Politikwissenschaftler Wilhelm Hennis[wp] hatte in seiner Freiburger Antrittsrede im Juli 1968 mit dem an Schmitt anknüpfenden Titel Verfassung und Verfassungswirklichkeit das Verfassungsdenken der "Linken" - genauer: die Unterscheidung zwischen den formalen Organisationsformen und den materiellen Prinzipien der Grundrechte - als "reinen Carl Schmitt frankfurterisch" bezeichnet.[105] Schmitt, dem Hennis die Schrift zugesandt hatte, antwortete im Dezember 1968 mit einer lobenden Bemerkung in Richtung der Autoren der Frankfurter Schule:

"Meine Schrift über Legalität und Legitimität sollte verhindern, dass sie [gemeint ist die Verfassung] ein Instrument des Bürgerkrieges würde; daher die wichtigste rechtswissenschaftliche Erkenntnis der ganzen Schrift: die Lehre von den 'politischen Prämien auf den legalen Machtbesitz', die in einer Zeit der großen Koalition[wp] [gemeint ist die Regierung Kurt Georg Kiesinger[wp] und Willy Brandt[wp]1966-1969[wp]] von selbst zu einer Praxis legaler Prämien auf dem politischen Machtbesitz werden. Das ist es, was die Frankfurter begreifen und was andere nicht begreifen wollen."[106]

CSB-15.jpgNeben Anknüpfungspunkten von Schmitt mit Protagonisten der Frankfurter Schule gab es Elemente einer "problematischen Solidarität" (Friedrich Balke) zwischen der politischen Philosophin Hannah Arendt[wp]und Carl Schmitt.[107] In ihrem Werk Elemente und Ursprünge totaler Herrschaft[wp] von 1951[108]postulierte Arendt, es habe eine relativ kleine Zahl "wirklicher Künstler und Gelehrter" gegeben, die sich "in Nazideutschland nicht nur gleichgeschaltet[wp] hatten, sondern überzeugte Nazis waren" [...]. "Zur Illustration sei an die Karriere Carl Schmitts erinnert, der zweifellos der bedeutendste Mann in Deutschland auf dem Gebiet des Verfassungs- und Völkerrechts war und sich die allergrößte Mühe gegeben hat, es den Nazis recht zu machen. Es ist ihm nie gelungen." Vielmehr sei er von den Nationalsozialisten "schleunigst durch zweit- und drittrangige Begabungen wie Theodor Maunz[wp], Werner Best[wp], Hans Frank[wp], Gottfried Neesse[wp] und Reinhold Hoehn [sic! recte: Reinhard Höhn[wp]] ersetzt und an die Wand gespielt [worden]." [109] Arendt verwendete einige Schmittsche Begriffe wie "politische Romantik" (nach der Ausgabe von 1925)[110] und bezieht sich in diesem Zusammenhang auf dessen Thesen über die Verbindung von Philistern und politischen Romantikern. Sogar seiner 1934 erschienenen nationalsozialistisch geprägten Schrift Staat, Bewegung, Volk entnahm sie Gedankengänge.[111] In ihre umfangreiche Bibliographie am Schluss des Werkes nahm sie neben diese beiden Bücher auch Schmitts Arbeiten Totaler Feind, totaler Krieg, totaler Staat (1937) und Völkerrechtliche Großraumordnung für raumfremde Mächte (1941) auf. Mit ihrem Konzept einer auf pluraler öffentlicher politischer Kommunikation beruhenden Rätedemokratie[wp] war Arendt jedoch im Grundsätzlichen weit von Schmitts Auffassungen entfernt.[112]

Ein Bindeglied zwischen Schmitt und der Frankfurter Schule war der Politologe Franz Neumann[wp], der als junger Jurist Schmitt rezipiert hatte.[113] Die auch bei Neumann anklingende Parlamentarismuskritik lässt sich von Neumann über Arendt bis zu Habermas verfolgen. Carl J. Friedrich[wp], der mit Arendt, Fraenkel und Neumann die Totalitarismustheorie begründete, war in jungen Jahren ebenfalls ein Bewunderer von Schmitt und besonders dessen Theorie der Diktatur[wp].[114] Auch im philosophischen Umfeld bestanden Kontakte zu sozialistischen Theoretikern. Neben Walter Benjamin[wp] ist hier vor allem der marxistische Philosoph Georg Lukács[wp] zu nennen, der Schmitts Politische Romantik rühmte, wofür dieser sich durch ein Zitat "des bekannten kommunistischen Theoretikers" im Begriff des Politischen von 1932 revanchierte. Benjamin hatte Schmitt am 9. Dezember 1930 einen Brief geschrieben, in dem er diesem sein Buch Ursprung des deutschen Trauerspiels übersandte.[115]

In der Bundesrepublik wurden die Verbindungen einiger Protagonisten der Studentenbewegung[wp], etwa Hans Magnus Enzensbergers[wp] - Hans Mathias Kepplinger[wp] nennt sie "rechte Leute von links" - zu Carl Schmitt diskutiert.[116] Der Politologe Wolfgang Kraushaar[wp] - ehemals selbst Teil der Studentenbewegung - vom Hamburger Institut für Sozialforschung[wp] vertrat die Auffassung, Hans-Jürgen Krahl[wp] müsse Carl Schmitts Theorie des Partisanen rezipiert haben, wie sich aus den Kriterien und Abgrenzungen zur Definition des Guerilleros ergebe, die dieser gemeinsam mit Rudi Dutschke[wp] 1967 auf einer berühmten SDS[wp]-Delegiertentagung entwickelt hatte (sog. Organisationsreferat). Diese Orientierung linker Theoretiker an der von Schmitt 1963 publizierten Partisanentheorie ist in der Tat nicht unwahrscheinlich, hatte doch z. B. der damalige Maoist[wp] Joachim Schickel in seinem 1970 edierten Buch Guerilleros, Partisanen - Theorie und Praxis ein "Gespräch über den Partisanen" mit Carl Schmitt veröffentlicht und diesen als "einzig erreichbaren Autor" bezeichnet, "der sich kompetent zum Thema geäußert hat".[117] In einem anderen Zusammenhang stellte Kraushaar die These auf, aus der Parlamentarismuskritik Johannes Agnolis[wp], einem der wesentlichen Impulsgeber der Studentenrevolte, sprächen Gedanken rechter Denker wie Carl Schmitt, Gaetano Mosca[wp] und Vilfredo Pareto[wp].[118]

Auch der linke Studentenführer Jens Litten, Mitglied des SHB[wp], führte im Jahre 1970 - zusammen mit Rüdiger Altmann[wp] - für den Norddeutschen Rundfunk[wp] ein Gespräch mit Schmitt, über das er in der protestantischen Wochenzeitung Deutsches Allgemeines Sonntagsblatt[wp] berichtete.[119] Wenn Schmitt von seinen Schülern spreche, so Litten, dann tauchten Namen auf, die "bei der Linken Autorität genießen". Für Schmitt sei dies selbstverständlich gewesen, denn: "links und rechts sind ihm Begriffe der politischen Vulgärsprache".[120]

Liegen Wurzeln der Parlamentarismuskritik einer APO-Bewegung bei Carl Schmitt?

Vor diesem Hintergrund wurde ein möglicher Einfluss Schmitts auf die 68er-Bewegung[wp] diskutiert, obwohl der Staatsrechtler bei linken Denkern gemeinhin als zentraler Antipode gesehen wird. Auch gibt es in den wenigsten Fällen direkte Bezugnahmen. Die Beeinflussung erfolgte in der Regel über linke Vordenker wie Fraenkel, Neumann oder Kirchheimer, die zeitweise stark von Schmitt beeinflusst waren. Der gemeinsame Anknüpfungspunkt war zumeist die Parlamentarismuskritik. Dieses Thema verband konservative Antiliberale mit einigen Theoretikern der sogenannten "Außerparlamentarischen Opposition"[wp] (APO). Der Politikwissenschaftler Heinrich Oberreuter[wp] betonte 2002: "Die radikale Systemkritik ging über die von Carl Schmitt und Jürgen Habermas begründeten Systemzweifel gegenüber einem Parlamentarismus, der seine geistigen Grundlagen und seine moralische Wahrheit verloren habe, hinaus."[121] Bereits 1983 hatte der Jurist Volker Neumann geschrieben: "Carl Schmitts Werk ist für die Linken attraktiv geblieben - bis heute. Das Interesse für ähnliche Problemlagen und eine vergleichbare Radikalität der Fragestellung lieferten das Material für eine liberale Kritik, die am Beispiel Schmitts und der Studentenbewegung die Übereinstimmung der Extreme konstatierte. Angesetzt hatte sie an der für das politische Selbstverständnis der Studentenbewegung wichtigen Parlamentarismuskritik Johannes Agnolis, die in die Kontinuität des von Schmitt geprägten Anti-Liberalismus und -Parlamentarismus gerückt wurde."[122] Leonard Landois behauptete in seinem 2008 erschienenen Buch Konterrevolution von links: Das Staats- und Gesellschafts­verständnis der '68er' und dessen Quellen bei Carl Schmitt, dass die Ursprünge des Staats- und Gesellschafts­verständnisses der Studentenbewegung bei Schmitt gesucht werden müssten.[123] Zwar konnte Landois tatsächlich verschiedene Parallelen zwischen Schmitt und den 68ern aufzeigen, er musste allerdings konzedieren, dass Vertreter der 68er mit Schmitt allenfalls indirekt Kontakt aufnahmen. Ebenso 2008 erschien Götz Alys[wp] sehr persönlich gefärbte Aufarbeitung der Studentenrevolte unter dem provokanten Titel Unser Kampf - 1968. Er argumentiert, die 68er hätten "im Geiste des Nazi-Juristen Carl Schmitt" den Pluralismus[wp] verachtet.[124]

CSB-16.jpgEin Beispiel für einen direkten Schnittpunkt zwischen Schmitt und der 68er-Bewegung war eine Tagung des Sozialistischen Deutschen Studentenbundes[wp] (SDS) in Berlin. Der bekannte Hegel[wp]-Forscher Alexandre Kojève[wp], der sich selbst als "einzigen echten Sozialisten" bezeichnete, hatte im Rahmen der Veranstaltung mitgeteilt, sein nächstes Reiseziel sei Plettenberg: "Wohin soll man denn in Deutschland fahren? Carl Schmitt ist doch der Einzige, mit dem zu reden sich lohnt". Aus dem engsten Umfeld Schmitts wird berichtet, dieser sei der Studentenrevolte gegenüber durchaus aufgeschlossen gewesen. Schmitt habe gemerkt: da bricht etwas auf. Das habe ihm gefallen. In diesem Sinne suchte er auch die konstruktive Auseinandersetzung mit Veröffentlichungen der 68er-Bewegung. So soll er etwa Texte des linken Literaturwissenschaftler Helmut Lethen[wp] mit besonderem Interesse gelesen haben. Zudem habe er sich selbst nie als Konservativen betrachtet. Er habe eine Vorliebe für schillernde und extreme Figuren gleich welcher politischen Ausrichtung gehabt, solange sie ihm geistreich und unvoreingenommen erschienen.[125] Dazu gehörte etwa auch Günter Maschke[wp], der seine politische Sozialisierung beim SDS erlebte, dann politisches Asyl im Kuba[wp] Fidel Castros[wp] suchte und heute der Neuen Rechtenzugeordnet wird.

Der Feind wird außerhalb des Rechts gesetzt - Carl Schmitt liefert Giorgio Agamben die Kategorien für eine fundamentale Guantánamo-Kritik.

Zuletzt gab es Kontroversen über das Werk des italienischen Philosophen Giorgio Agamben[wp], der sich neben dem Poststrukturalisten[wp] Michel Foucault[wp] und dem Vordenker der Kritischen Theorie[wp], Walter Benjamin[wp], in zentralen Elementen auf Carl Schmitt und dessen Theorie des Ausnahmezustands[wp] stützt. Agambens Guantánamo[wp]-Kritik, die Gefangenen würden als "irreguläre Kombattanten" "außerhalb der internationalen Ordnung der zivilisierten Welt gestellt" (hors la loi, wie Schmitt sagen würde), bedient sich Schmittscher Argumentationsmuster.

Teilweise ähnlich wie Schmitt argumentierte der US-amerikanische Politologe und Berater des US-Außenministeriums Samuel P. Huntington[wp] u. a. in seinem bekanntesten Werk Clash of Civilizations (1996). Auch die Globalisierungskritiker Michael Hardt[wp] und Antonio Negri[wp] haben für ihre Arbeit Empire - Die neue Weltordnung (Erstveröffentlichung 2004) von Schmittschen Analysewerkzeugen profitiert.

Ein marxistischer Autor, der eine vielfach bemängelte Nähe zu Carl Schmitt aufweist, ist der französische Philosoph und langjähriges Mitglied der KPF[wp] Étienne Balibar[wp]. Balibar hatte unter anderem den französischen Neudruck des Schmitt-Buches Der Leviathan[wp] in der Staatslehre des Thomas Hobbes - einer Publikation aus der NS-Zeit - mit einem Vorwort versehen.[126] Daraufhin wurde ihm vorgeworfen, Schmitt in gefährlicher Weise zu verharmlosen.[127]

Die Verwendung von Schmittschen Kategorien durch postmarxistische[wp] Theoretiker wie Michael Hardt, Antonio Negri, Giorgio Agamben, Chantal Mouffe[wp], Gopal Balakrishnan oder auch die Rezeption durch das Theorie-Organ "Telos"[wp] (eine zur Popularisierung der Ideen der Frankfurter Schule in den USA 1968 gegründete Zeitschrift) illustrieren die Anknüpfung an die frühe linke Rezeption Schmitts durch Benjamin, Fraenkel, Kirchheimer und Neumann. Vor allem die Interventions­politik der Vereinigten Staaten (siehe etwa Irak-Krieg[wp]) oder die Rolle der Vereinten Nationen[wp] als eine Art "Weltregierung" werden häufig unter Rückgriff auf Schmittsche Theoreme abgelehnt. Teilweise wurden Schmitts Argumente gegen den Völkerbund auf US-amerikanische Politik übertragen und den Vereinigten Staaten eine ökonomische Interessenpolitik unter dem Schleier demokratischer Ziele zugeschrieben. Andererseits können sich die Befürworter von mit Natur[wp]- oder Menschenrechten begründeter Interventionen auf Schmitts Postulat der "absoluten Feindschaft" bzw. "Tyrannei der Werte" beziehen, die das Prinzip der Gegenseitigkeit im Völkerrecht aufhebe.

Auch die Theorien des Politikwissenschaftlers und Machiavelli[wp]-Experten Herfried Münkler[wp] zu "asymmetrischen Kriegen" und zum "Imperium" knüpfen an Thesen Carl Schmitts an. Der postmoderne Philosoph und Begründer des Dekonstruktivismus Jacques Derrida[wp] setzte sich in seinem Buch Politik der Freundschaft (2000) sehr ausführlich mit Schmitt auseinander und proklamierte bereits in einem Interview 1994 die Notwendigkeit einer neuen Rezeption: "Kurz gesagt, ich glaube, man muß Schmitt, wie Heidegger, neu lesen - und auch das, was sich zwischen ihnen abspielt. Wenn man die Wachsamkeit und den Wagemut dieses entschieden reaktionären Denkers ernst nimmt, gerade da, wo es auf Restauration aus ist, kann man seinen Einfluß auf die Linke ermessen, aber auch zugleich die verstörenden Affinitäten - zu Leo Strauss[wp], Benjamin und einigen anderen, die das selbst nicht ahnen."[128]

Das Projekt der Demaskierung bürgerlicher Strukturen als (ökonomische) Interessenpolitik durch Schmitt ist ein Punkt, den Linke wie Rechte aufgriffen. Auch Anti­parlamentarismus, Anti­liberalismus, Etatismus, Anti­imperialismus und Antiamerikanismus[wp] stießen auf beiden Seiten des politischen Spektrums auf Interesse.

CSB-17.jpgFür die politische Rechte sind darüber hinaus vor allem Ethnopluralismus[wp], Nationalismus, Kulturpessimismus[wp] und die Bewunderung für den italienischen Faschismus anschlussfähig. Hinzu kommt Schmitts Option für Ausnahmezustand und Diktatur zur Wahrung der politischen Ordnung, auch unter Verletzung des positiven Rechts[wp]. Daher stoßen Schmitts Werke auch heute noch auf ein reges Interesse in konservativen Kreisen (s. etwa die Rezeption durch die Frankfurter Allgemeine Zeitung[129]) und im Umfeld der sog. Neuen Rechten (s. vor allem Junge Freiheit, Etappe[wp], Staatsbriefe[wp] oder Criticón[wp], selbiges gilt für die Nouvelle Droite[wp] in Frankreich[130]). Führende Theoretiker der Neuen Rechten/Nouvelle Droite beschäftigen sich intensiv mit Carl Schmitt, allen voran Alain de Benoist[wp], Günter Maschke[wp] und Armin Mohler[wp] (der sich selbst als sein "Schüler" bezeichnete). Aufgrund der aktualisierenden Rezeption aus neurechtem und rechts­extremistischem Umfeld taucht Schmitt regelmäßig in Publikationen des Verfassungs­schutzes[wp] als Ahnherr revisionistischer[wp] Bestrebungen auf. So vermerkte etwa der Verfassungsschutz Mecklenburg-Vorpommern im Jahre 2003, die Zeitschrift Nation und Europa[wp], das "bedeutendste rechtsextremistische Strategie- und Theorieorgan", habe in antiamerikanischer Absicht auf völkerrechtliche Theoreme Schmitts Bezug genommen: "Die Forderungen nach einem Ausschluss raumfremder Mächte aus Europa knüpfen an die Auffassungen des Staatsrechtlers Carl Schmitt an, welcher zu Zeiten des Dritten Reiches für die Vorherrschaft Deutschlands in einem von den USA nicht beeinflussten Europa eintrat. Eine Trennung von Amerika soll im revisionistischen Sinn mit einer politisch motivierten Korrektur von Geschichtsauffassungen verbunden sein."[131]

Weitere Anknüpfungspunkte gab es in - auch für Zeitgenossen - überraschenden Zusammen­hängen. Beispielsweise berichtete der jüdische Religions­philosoph Jacob Taubes[wp], der mit Schmitt in Kontakt stand, dass dessen Verfassungslehre in der Diskussion um eine mögliche israelische Verfassung herangezogen worden sei. Dies habe er als Research-Fellow 1949 zufällig durch eine erfolglose Bestellung des Buches in der Bibliothek der Jerusalemer Hebräischen Universität[wp] festgestellt: "Einen Tag, nachdem ich Carl Schmitts Verfassungslehre angefordert hatte, kam ein dringender Anruf vom Justizministerium, der Justizminister Pinchas Rosen[wp] (früher Rosenblüth) brauche Carl Schmitts Verfassungslehre zur Ausarbeitung einiger schwieriger Probleme in den Entwürfen zur Verfassung des Staates Israel".[132] Taubes, damals Professor an der FU Berlin[wp], war eine wichtige Bezugsfigur für die deutsche Studenten­bewegung[wp]. Er hatte etwa ein Flugblatt der Kommunarden Rainer Langhans[wp]und Fritz Teufel[wp], das indirekt zu Brandanschlägen aufrief, in einem gerichtlichen Gutachten in die Tradition der "europäischen Avantgarde[wp]" gestellt und damit zu einem Freispruch beigetragen.[133] Die Anschluss­fähigkeit Schmitts für Taubes illustriert die Inhomogenität der Rezeption.

Im Zusammenhang mit dem europäischen Integrations­prozess wurde die Frage erörtert, ob die Großraumtheorie Carl Schmitts oder seine "Verfassungslehre des Bundes" (1928) als Grundlage für das europäische Gemeinschafts­konzept bezeichnet werden kann. So wurde darauf hingewiesen, dass die von Schmitt angeführten Gründe für die Entstehung von Großräumen - grenzüberschreitende Anforderungen an Verkehr und Kommunikations­technik, Berücksichtigung wirtschaftlicher Abhängigkeiten zwischen verschiedenen Volkswirtschaften - auch bei der Schaffung der Europäischen Gemeinschaften[wp] eine wichtige Rolle gespielt hätten. Auch sei Schmitts Beschreibung des Großraums als eine faktisch und rechtlich hinter dem Staat zurückbleibende völkerrechtliche Einheit für die Europäische Union[wp]zutreffend. Die These, die EU sei ein Großraum im Sinne Carl Schmitts, wurde aber auch zurückgewiesen. Europa sei, anders als bei Carl Schmitt, kein Raum, in dem sich Wirtschaft, Technik und Verwaltung einem supra­nationalen Primat unterzuordnen hätten; auch sei der Staat im Prozess der europäischen Integration keineswegs überflüssig, sondern geradezu entscheidende Integrations­voraussetzung.[134] Dagegen äußerte der Europarechtler Hans-Peter Folz 2006 die Auffassung, dass die Europäische Gemeinschaft geradezu ein Modellfall von Schmitts "Verfassungslehre des Bundes" sei. Schmitt habe nämlich in seiner Verfassungslehre der traditionellen Unterscheidung von Bundesstaat und Staatenbund, die sich in der Analyse als unzureichend erwiesen habe, eine dritte Kategorie hinzugefügt: die nicht-konsolidierte Staatenverbindung. Mit dieser Kategorie sei es besser möglich, sich entwickelnde multistaatliche Gebilde wie die Europäische Union zu beschreiben. Als das Wesen des Bundes hatte Schmitt den unaufgelösten Konflikt zwischen dem Bund - als Zentrum einer auf Dauer angelegten Staatenverbindung - und den Gliedstaaten definiert. Der Bund lebt demnach von dem gleichberechtigten Nebeneinander zweier politischer Existenzen und der Unklarheit der Souveränitätsfrage. Die in einem Bund organisierten Einheiten können nach Schmitts Auffassung sogar auf miteinander unvereinbaren Prinzipien beruhen, solange es gelingt, existenzbedrohende Konflikte zu vermeiden. Diese Charakteristika ließen sich, so die These, auch bei der Europäischen Union beobachten. Dies zeige sich etwa an der unklaren Rechtsnatur der Europäischen Gemeinschaft und dem Fehlen einer abschließenden juristischen Definition des die Eigen­ständig­keit des Integrations­ansatzes betonenden Begriffs der "Supranationalität"[wp]. Zwar hätten sich in der Rechtsprechung des Europäischen Gerichtshofs[wp] drei Wesensmerkmale der Supranationalität der Gemeinschaft herauskristallisiert - Supranationalität des Entscheidungsprozesses, Normative Supranationalität, Ausstattung der Gemeinschaft mit eigenen Rechtsetzungskompetenzen -, alle diese Merkmale seien aber umstritten geblieben. Daher seien Konflikt­vermeidungs­strategien entwickelt worden, die trotz grundsätzlich unterschiedlicher Positionen das Bestehen der Gemeinschaft sichern sollten (z. B. Streit um Beschluss­fassungs­regeln im Ministerrat gem. Art. 148 EGV[wp], Luxemburger Kompromiss vom 29. Januar 1966, Grundrechtskonflikt zwischen EuGH und BverfG, Justizkonflikt um die Bananen-Marktordnung). Folz urteilt daher: "Zusammenfassend können wir feststellen, dass die Gemeinschaft in all ihren wesentlichen supra­nationalen Merkmalen von Konflikten zwischen der Gemeinschaft und ihren Mitgliedsstaaten geprägt worden ist. Das Modell des Bundes im Schmittschen Sinne ist deshalb auf die Gemeinschaft übertragbar und hervorragend geeignet, das Verhältnis zwischen der Gemeinschaft und ihren Mitglieds­staaten zu beschreiben."[135]

Gegenwärtig erlebt Schmitts Werk in der politischen Wissenschaft und Publizistik eine Renaissance: Trotz seines Rufes als "Kronjurist des Dritten Reiches" und seines vielfach dokumentierten Antisemitismus wird es zunehmend international rezipiert, etwa wenn über seinen Einfluss auf die amerikanischen Neokonservativen diskutiert[136] oder der bewaffnete Terrorismus[wp] als "Partisanenstrategie" analysiert wird.[137] Heinrich Meier[wp] hebt den Umstand hervor, dass mit Leo Strauss[wp] - bei all dessen kritischer Auseinandersetzung mit Schmitts Begriff des Politischen[138] - eine führende Persönlichkeit der frühen Neokonservativen in den USA stark von dem umstrittenen Staatsrechtslehrer beeinflusst war.

Schriften (Auswahl)

  • Über Schuld und Schuldarten. Eine terminologische Untersuchung. 1910.
  • Gesetz und Urteil. Eine Untersuchung zum Problem der Rechtspraxis. 1912.
  • Schattenrisse. (In Zusammenarbeit mit Dr. Fritz Eisler veröffentlicht unter dem gemeinsamen Pseudonym Johannes Mox Doctor Negelinus) 1913.
  • Der Wert des Staates und die Bedeutung des Einzelnen. 1914.
  • Theodor Däublers Nordlicht: Drei Studien über die Elemente, den Geist und die Aktualität des Werkes.1916.
  • Die Buribunken. in: Summa 1/1917/18, 89 ff.
  • Politische Romantik. 1919. (Digitalisat)
  • Die Diktatur. Von den Anfängen des modernen Souveränitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf. 1921.
  • Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität. 1922.
  • Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus. 1923.
  • Römischer Katholizismus und politische Form. 1923.
  • Die Rheinlande als Objekt internationaler Politik. 1925.
  • Die Kernfrage des Völkerbundes. 1926.
  • Der Begriff des Politischen. In: Archiv für Sozialwissenschaften und Sozialpolitik[wp]. Bd. 58 (1927), S. 1 bis 33.
  • Volksentscheid und Volksbegehren. Ein Beitrag zur Auslegung der Weimarer Verfassung und zur Lehre von der unmittelbaren Demokratie. 1927.
  • Verfassungslehre. 1928.
  • Hugo Preuß. Sein Staatsbegriff und seine Stellung in der dt. Rechtslehre. 1930
  • Der Völkerbund und das politische Problem der Friedenssicherung. 1930, 2. erw. Aufl., 1934.
  • Der Hüter der Verfassung. 1931 (Erweiterung eines Aufsatzes von 1929).
  • Der Begriff des Politischen. 1932 (Erweiterung des Aufsatzes von 1927).
  • Legalität und Legitimität. 1932.
  • Staat, Bewegung, Volk. Die Dreigliederung der politischen Einheit. 1933.
  • Das Reichsstatthaltergesetz. 1933.
  • Staatsgefüge und Zusammenbruch des Zweiten Reiches. Der Sieg des Bürgers über den Soldaten.1934.
  • Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens. 1934.
  • Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes. 1938.
  • Die Wendung zum diskriminierenden Kriegsbegriff. 1938.
  • Völkerrechtliche Großraumordnung und Interventionsverbot für raumfremde Mächte. Ein Beitrag zum Reichsbegriff im Völkerrecht. 1939.
  • Positionen und Begriffe im Kampf mit Weimar - Genf - Versailles 1923-1939. 1940 (Aufsatzsammlung).
  • Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung. 1942.
  • Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum. 1950.
  • Donoso Cortes in gesamteuropäischer Interpretation. 1950.
  • Ex captivitate salus. Erinnerungen der Zeit 1945/47. 1950.
  • Die Lage der europäischen Rechtswissenschaft. 1950.
  • Gespräch über die Macht und den Zugang zum Machthaber. 1954.
  • Hamlet oder Hekuba. Der Einbruch der Zeit in das Spiel. 1956.
  • Verfassungsrechtliche Aufsätze aus den Jahren 1924-1954. 1958 (Aufsatzsammlung).
  • Theorie des Partisanen. Zwischenbemerkung zum Begriff des Politischen.[wp] 1963.
  • Politische Theologie II. Die Legende von der Erledigung jeder Politischen Theologie. 1970.
  • Glossarium. Aufzeichnungen der Jahre 1947-1951. Postum herausgegeben von Eberhard Freiherr von Medem, 1991.
  • Das internationalrechtliche Verbrechen des Angriffskrieges. Postum herausgegeben von Helmut Quaritsch[wp], 1993.
  • Staat - Großraum - Nomos. Postum herausgegeben von Günter Maschke, 1995.
  • Frieden oder Pazifismus? Postum herausgegeben von Günter Maschke, 2005.

Zitate

  • "Es scheint also das Schicksal der Demokratie zu sein, sich im Problem der Willensbildung selbst aufzuheben. Für den radikalen Demokraten hat die Demokratie als solche einen eigenen Wert, ohne Rücksicht auf den Inhalt der Politik, die man mit Hilfe der Demokratie macht. Besteht aber Gefahr, daß die Demokratie benutzt wird, um die Demokratie zu beseitigen, so muß der radikale Demokrat sich entschließen, auch gegen die Mehrheit Demokrat zu bleiben oder aber sich selbst aufzugeben."[139]
  • "In manchen Staaten hat es der Parlamentarismus schon dahin gebracht, daß sich alle öffentlichen Angelegenheiten in Beute- und Kompromißobjekte von Parteien und Gefolgschaften verwandeln und die Politik, weit davon entfernt, die Angelegenheit einer Elite zu sein, zu dem ziemlich verachteten Geschäft einer ziemlich verachteten Klasse von Menschen geworden ist." [140][141]
  • "Die Parteien treten heute nicht mehr als diskutierende Meinungen, sondern als soziale oder wirtschaftliche Machtgruppen einander gegenüber, berechnen die beiderseitigen Interessen und Machtmöglichkeiten und schließen auf dieser taktischen Grundlage Kompromisse und Koalitionen. Die Massen werden durch einen Propaganda-Apparat gewonnen, dessen größte Wirkungen auf einem Appell an nächstliegende Interessen und Leidenschaften beruhen. Das Argument im eigentlichen Sinne, das für die echte Diskussion charakteristisch ist, verschwindet." [142][141]
  • "Die spezifisch politische Unterscheidung, auf welche sich die politischen Handlungen und Motive zurückführen lassen, ist die Unterscheidung von Freund und Feind." [143][141]
  • "Dadurch, daß ein Volk nicht mehr die Kraft oder den Willen hat, sich in der Sphäre des Politischen zu halten, verschwindet das Politische nicht aus der Welt. Es verschwindet nur ein schwaches Volk." [144][141]

Literatur

Übersicht Primär- und Sekundärliteratur:

  • Alain de Benoist[wp]: Carl Schmitt. Bibliographie seiner Schriften und Korrespondenzen. Akademie Verlag, Berlin 2003. ISBN 3-05-003839-X
  • Alain de Benoist: Carl Schmitt. Internationale Bibliographie der Primär- und Sekundärliteratur. Ares-Verlag, Graz 2010. ISBN 978-3-902475-66-4

Leben

Monographien
  • Joseph W. Bendersky: Carl Schmitt, Theorist for the Reich. Princeton University Press, Princeton 1983, ISBN 0-691-05380-4
  • Paul Noack[wp]: Carl Schmitt. Eine Biographie. Propyläen Verlag, Berlin 1993, ISBN 3-549-05260-X
  • Christian Linder[wp]: Der Bahnhof von Finnentrop. Eine Reise ins Carl-Schmitt-Land. Matthes & Seitz, Berlin 2008, ISBN 978-3-88221-704-9
  • Reinhard Mehring: Carl Schmitt - Aufstieg und Fall. Eine Biographie. Verlag C.H. Beck, München 2009, ISBN 978-3-406-59224-9
Aufsätze
  • Hans-Christof Kraus: Carl Schmitt (1988-1985). In: Michael Fröhlich (Hrsg.): Die Weimarer Republik. Porträt einer Epoche in Biographien. Darmstadt 2002, ISBN 3-89678-441-2, S. 326-337
  • Henning Ottmann[wp]: Carl Schmitt - Leben und Werke. In: Karl Graf Ballestrem, Henning Ottmann (Hrsg.): Politische Philosophie des 20. Jahrhunderts. München 1990, ISBN 3-486-55141-8, S. 61-87
Tagebücher
  • Ernst Hüsmert (Hrsg.): Carl Schmitt. Tagebücher vom Oktober 1912 bis Februar 1915. 2., korr. Aufl., Akademie Verlag, Berlin 2005, ISBN 3-05-004093-9
  • Ernst Hüsmert, Gerd Giesler (Hrsg.): Carl Schmitt. Die Militärzeit 1915 bis 1919, Akademie Verlag, Berlin 2005, ISBN 3-05-004079-3
  • Wolfgang Schuller[wp], Gerd Giessler (Hrsg.): Carl Schmitt. Tagebücher 1930 bis 1934. Akademie Verlag, Berlin 2010, ISBN 978-3-05-003842-1
Briefwechsel
  • Rolf Rieß (Hrsg.): Carl Schmitt - Ludwig Feuchtwanger[wp]. Briefwechsel 1918-1935. Mit einem Vorwort von Edgar Feuchtwanger[wp]. Duncker & Humblot, Berlin 2007, ISBN 3-428-12448-0.
  • Reinhard Mußgnug[wp], Dorothee Mußgnug, Angela Reinthal (Hrsg.): Briefwechsel Ernst Forsthoff[wp]- Carl Schmitt (1926-1974). Akademie Verlag, Berlin 2007, ISBN 3-05-003535-8. (eingeschränkte Vorschau).
  • Alexander Schmitz, Marcel Lepper (Hrsg.): Hans Blumenberg, Carl Schmitt: Briefwechsel 1971-1978. Und weitere Materialien. Suhrkamp, Frankfurt am Main 2007, ISBN 978-3-518-58482-8.
  • Reinhard Mehring (Hrsg.): "Auf der gefahrenvollen Straße des öffentlichen Rechts". Briefwechsel Carl Schmitt - Rudolf Smend[wp] (1921-1961). Mit ergänzenden Materialien. Duncker & Humblot, Berlin 2010, ISBN 3-428-13394-3.
  • Helmuth Kiesel[wp] (Hrsg.): Ernst Jünger[wp] - Carl Schmitt: Briefe 1930 -1983. Verlag Klett-Cotta, Stuttgart 2012, ISBN 978-3-608-93940-8.
Gespräche
  • Frank Hertweck und Dimitrios Kisoudis (Hrsg.): Solange das Imperium hält. Carl Schmitt im Gespräch mit Klaus Figge und Dieter Groh[wp], Duncker & Humblot, Berlin 2010 ISBN 978-3-428-13452-6

Allgemeine Literatur zu Leben und Werk

  • Norbert Campagna: Carl Schmitt. Eine Einführung. Berlin 2004, ISBN 3-937262-00-8.
  • Gopal Balakrishnan: The Enemy. An Intellectual Portrait of Carl Schmitt. New York 2002, ISBN 1-85984-359-X.
  • Hugo Eduardo Herrera: Carl Schmitt als politischer Philosoph. Versuch einer Bestimmung seiner Stellung bezüglich der Tradition der praktischen Philosophie. Duncker & Humblot, Berlin 2010, ISBN 978-3-428-83399-3.
  • Hasso Hofmann[wp]: Legitimität gegen Legalität. Der Weg der politischen Philosophie Carl Schmitts. 4. Auflage. Duncker & Humblot, Berlin 2002, ISBN 3-428-10386-6.
  • Reinhard Mehring: Carl Schmitt zur Einführung. 4. vollst. überarb. Neufassung. Junius, Hamburg 2011, ISBN 978-3-88506-685-9.
  • Helmut Quaritsch[wp]: Positionen und Begriffe Carl Schmitts. Berlin 1995, ISBN 3-428-08257-5.
  • Helmut Quaritsch (Hrsg.): Complexio Oppositorum. Über Carl Schmitt. Berlin 1988, ISBN 3-428-06378-3.
  • Reinhard Mehring: Wie fängt man ein Chamäleon? Probleme und Wege einer Carl Schmitt-Biographie. In: Zeitschrift für Ideengeschichte. III/2 (2009), S. 71-86.
  • Reinhard Mehring: Carl Schmitt im Archiv. In Annette Brockmöller[wp], Eric Hilgendorf (Hrsg.): Rechtsphilosophie im 20. Jahrhundert - 100 Jahre Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie. Reihe Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie, Beiheft 116, S. 51-67.
  • Reinhard Mehring: Ausgerechnet ich! Souverän ist, wer der Nachwelt die Auswahl des Lesenswerten überläßt. Warum es keine Carl-Schmitt-Gesamtausgabe gibt. In: FAZ. 10. Juli 2006.

Einzelne Aspekte

Politische Theorie

  • Reinhard Mehring (Hrsg.): Carl Schmitt - Der Begriff des Politischen. Ein kooperativer Kommentar. Berlin 2003, ISBN 3-05-003687-7.
  • David Dyzenhaus: Law As Politics. Carl Schmitt's Critique of Liberalism. Durham & London 1998, ISBN 0-8223-2244-7.
  • Heinrich Meier[wp]: Die Lehre Carl Schmitts. Vier Kapitel zur Unterscheidung Politischer Theologie und Politischer Philosophie. Stuttgart/Weimar 2004, ISBN 3-476-02052-5.
  • Hartmuth Becker: Die Parlamentarismuskritik bei Carl Schmitt und Jürgen Habermas[wp]. Berlin 2003, ISBN 3-428-11054-4.

Weimarer Republik

  • David Dyzenhaus: Legality and Legitimacy. Carl Schmitt, Hans Kelsen and Hermann Heller in Weimar. Oxford 2000, ISBN 0-19-829846-3
  • Ellen Kennedy: Constitutional Failure. Carl Schmitt in Weimar. Durham 2004, ISBN 0-8223-3243-4
  • Lutz Berthold: Carl Schmitt und der Staatsnotstandsplan am Ende der Weimarer Republik. Berlin 1999, ISBN 3-428-09988-5
  • Gabriel Seiberth: Anwalt des Reiches. Carl Schmitt und der Prozess "Preußen contra Reich" vor dem Staatsgerichtshof. Berlin 2001, ISBN 3-428-10444-7
  • Stefan Breuer: Carl Schmitt im Kontext. Intellektuellenpolitik in der Weimarer Republik. Berlin 2012, ISBN 978-3-05-005943-3

Drittes Reich

  • Joseph W. Bendersky: Carl Schmitt. Theorist for the Reich. Princeton NJ 1983, ISBN 0-691-05380-4
  • Andreas Koenen: Der Fall Carl Schmitt. Darmstadt 1995, ISBN 3-534-12302-6
  • Dirk Blasius: Carl Schmitt. Preußischer Staatsrat in Hitlers Reich. Göttingen 2001, ISBN 3-525-36248-X
  • Bernd Rüthers[wp]: Entartetes Recht. Rechtslehren und Kronjuristen im Dritten Reich. München 1988, ISBN 3-406-32999-3
  • Bernd Rüthers: Carl Schmitt im Dritten Reich - Wissenschaft als Zeitgeist-Verstärkung?. 2. Auflage. München 1990, ISBN 3-406-34701-0
  • Felix Blindow: Carl Schmitts Reichsordnung. Berlin 1999, ISBN 3-05-003405-X
  • Helmut Quaritsch: Carl Schmitt. Antworten in Nürnberg. Berlin 2000, ISBN 3-428-10075-1
  • Raphael Gross[wp]: Carl Schmitt und die Juden. Frankfurt 2000, ISBN 3-518-29354-0
  • Karl Graf Ballestrem[wp]: Carl Schmitt und der Nationalsozialismus. Ein Problem der Theorie oder des Charakters? In: O. W. Gabriel u. a. (Hrsg.): Der demokratische Verfassungsstaat. Theorie, Geschichte, Probleme, Festschrift für Hans Buchheim zum 70. Geburtstag. Oldenbourg 1992, ISBN 3-486-55934-6, S. 115-132

Bundesrepublik

  • Jürgen Habermas[wp]: Carl Schmitt in der politischen Geistesgeschichte der Bundesrepublik. In dsb., Die Normalität einer Berliner Republik. Frankfurt 1995, ISBN 3-518-11967-2, S. 112-122
  • Dirk van Laak: Gespräche in der Sicherheit des Schweigens. Carl Schmitt in der politischen Geistesgeschichte der frühen Bundesrepublik. Berlin 1993, ISBN 3-05-003744-X
  • Jan-Werner Müller: Ein gefährlicher Geist. Carl Schmitts Wirkung in Europa. WBG, Darmstadt 2007 ISBN 3-534-19716-X. Neuaufl. um ein Register ergänzt ebd. 2011 (Aus dem Englischen v. Nikolaus de Palézieux: A Dangerous Mind. Carl Schmitt in Post-War European Thought. Yale University Press[wp], New Haven 2003, ISBN 0-300-09932-0)

Einzelnachweise

  1. Christian Barzik: Carl Schmitt über den Parlamentarismus, die Bühne im Kampf der Meinungen, Blaue Narzisse am 6. April 2009
  2. Bernd Rüthers: Besprechung von Carl Schmitt - Die Militärzeit. In: Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte[wp]. Band 124, 2007, S. 729 (Internet). S. auch die Geburtsurkunde auf carl-schmitt.de
  3. Herfried Münkler: Erkenntnis wächst an den Rändern (Der Denker Carl Schmitt beschäftigt auch 20 Jahre nach seinem Tod Rechte wie Linke), Die Welt am 7. April 2005
  4. Zum Beispiel bezüglich des "konstruktiven Misstrauensvotums[wp]". Lutz Berthold: Das konstruktive Misstrauensvotum und seine Ursprünge in der Weimarer Staatsrechtslehre, in: Der Staat[wp], Bd. 36 (1997), S. 81-94, oder eines änderungsfesten Verfassungskerns[wp], s. Reinhard Mußgnug, Carl Schmitts verfassungsrechtliches Werk und sein Fortwirken im Staatsrecht der Bundesrepublik Deutschland, in: Helmut Quaritsch (Hg.), Complexio Oppositorum. Über Carl Schmitt, 1988, S. 517 ff.; Hans J. Lietzmann, Carl Schmitt und die Verfassungsgründung in der Bundesrepublik Deutschland, in: Klaus Hansen/Hans J. Lietzmann (Hg.), Carl Schmitt und die Liberalismuskritik, 1988, S. 107-118
  5. Helmut Rumpf, Carl Schmitt und Thomas Hobbes - Ideale Beziehungen und aktuelle Bedeutung, 1972
  6. Hugo Eduardo Herrera, Carl Schmitt als politischer Philosoph. Versuch einer Bestimmung seiner Stellung bezüglich der Tradition der praktischen Philosophie, 2010
  7. Armin Steil, Die imaginäre Revolte. Untersuchungen zur faschistischen Ideologie und ihrer theoretischen Vorbereitung bei Georges Sorel, Carl Schmitt und Ernst Jünger, 1984;
  8. S. Piet Tommissen[wp]: Gehlen - Pareto - Schmitt, in: Helmut Klages und Helmut Quaritsch (Hrsg.): Zur geisteswissenschaftlichen Bedeutung Arnold Gehlens, 1994, S. 171-197
  9. Christian Linder: Freund oder Feind, Lettre International, Heft 68, 2005, S. 86
  10. Carl Schmitt, Begriff des Politischen, 1987, S. 13 (Vorwort)
  11. Christian Linder: Freund oder Feind, Lettre International, Heft 68, 2005, S. 83
  12. "Starker Staat und gesunde Wirtschaft. Ein Vortrag vor Wirtschaftsführern", 1932, in: Carl Schmitt, Staat, Großraum, Nomos, 1995, S. 71 ff., hier S. 81
  13. Rüstow hatte gesagt: "Der neue Liberalismus jedenfalls, der heute vertretbar ist und den ich mit meinen Freunden vertrete, fordert einen starken Staat, einen Staat oberhalb der Wirtschaft, oberhalb der Interessenten, da, wo er hingehört." zit. nach: Alexander Rüstow, Freie Wirtschaft, Starker Staat, Vortrag auf der Jahrestagung des Vereins für Socialpolitik, September 1932, in: Franz Bosse (Hg.), Deutschland und die Weltkrise, Schriften des Vereins für Socialpolitik 187, München 1932, S. 62-69, s. auch Michael von Prollius, Menschenfreundlicher Neoliberalismus, FAZ, 10. November 2007, S. 13
  14. Ralf Ptak, Vom Ordoliberalismus zur sozialen Marktwirtschaft, Stationen des Neoliberalismus in Deutschland, 2004, S. 36f
  15. S. etwa Kelsen, Schmitt und "der Hüter der Verfassung": Weimar, 1931 (Tagungsbericht); Hans C. Mayer, Wer soll Hüter der europäischen Verfassung sein? In: Archiv des öffentlichen Rechts (AöR[wp]) 129 (2004), Heft 3, S. 411-435 (Internet); Dan Diner/Michael Stolleis (Hg.), Hans Kelsen and Carl Schmitt: a Juxtaposition, Gerlingen 1999; Volker Neumann, Theologie als staatsrechtswissenschaftliches Argument: Hans Kelsen und Carl Schmitt, in: Der Staat 47 (2008), S. 163-186
  16. Carl Schmitt, Politische Theologie, 6. Aufl. 1993, S. 67
  17. Schmitt, Politische Theologie, 1. Aufl., S. 54. Zur Exegese Eduard Schweizer: Das Evangelium nach Matthäus, Ausgabe 16, 1986, S. 331ff
  18. Politische Theologie, 6. Aufl., S. 67
  19. Paul Noack, Carl Schmitt, 1993, S. 81. Schmitts Auseinandersetzung mit dem italienischen Faschismus begann 1923 in seiner Schrift über "Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus". 1929 konkretisierte er seine Überlegungen in einer ausführlichen Rezension von Erwin von Beckeraths "Wesen und Werden des faschistischen Staates" (zitiert nach Positionen und Begriffe, S. 124 ff.). Noack urteilt über Schmitts Verhältnis zu Mussolini: "Schmitt hat sich zwar oft auf italienische Staatstheoretiker von Machiavelli über Mosca bis zu Pareto bezogen, die soziale und politische Wirklichkeit des faschistischen Staates aber ist ihm fremd geblieben." (Noack, S. 83). Wolfgang Schieder[wp] urteilte: "Carl Schmitt hat sich [...] mit dem italienischen Faschismus nie wirklich beschäftigt." (Wolfgang Schieder: Carl Schmitt und Italien, in: Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte, Jg. 37, 1989, S. 1 ff., hier S. 14). 1936 wurde Schmitt als Teil einer Delegation für eine halbstündige Audienz bei Mussolini empfangen. Ein persönliches Gespräch kam aber nicht zustande. S. Wolfgang Schieder, Eine halbe Stunde bei dem Diktator - Zunächst bestritt Carl Schmitt, 1936 in Rom gewesen zu sein, dann erzählte er von Mussolini, FAZ, Natur und Wissenschaft, 3. Januar 2007
  20. (Wesen und Werden des faschistischen Staates, in: Positionen und Begriffe, S. 126)
  21. S. etwa Otto Kirchheimer/Nathan Leites, Bemerkungen zu Carl Schmitts 'Legalität und Legitimität', in: Arch. für Sozialwiss. und Sozialpol. 68/1933, 457 ff.; Zu Kirchheimer und Schmitt s. Volker Neumann, Verfassungstheorie politischer Antipoden: Otto Kirchheimer und Carl Schmitt. In: Kritische Justiz 14/1981, 31 ff; Riccardo Bavaj, Otto Kirchheimers Parlamentarismuskritik in der Weimarer Republik. Ein Fall von "Linksschmittianismus", Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte, LV, 1, Januar 2007, Seiten 33-51; Reinhard Mehring: "ein typischer Fall jugendlicher Produktivität". Otto Kirchheimers Bonner Promotionsakte, in: Forum Historie Juris, 2010; Zu Fraenkel und Schmitt s. Michael Wildt, Ernst Fraenkel und Carl Schmitt: Eine ungleiche Beziehung, in: Daniela Münkel/Jutta Schwarzkopf (Hg.), Geschichte als Experiment. Festschrift für Adelheid von Saldern, 2004 (PDF); Zu Neumann und Schmitt s. Volker Neumann, Kompromiß oder Entscheidung? Zur Rezeption der Theorie Carl Schmitts in den Weimarer Arbeiten von Franz Neumann, in: Joachim Perels (Hrsg.), Recht, Demokratie und Kapitalismus, 1984, S. 65 ff.; Alfons Söllner, Linke Schüler der Konservativen Revolution? Zur politischen Theorie von Neumann, Kirchheimer und Marcuse am Ende der Weimarer Republik, in: Leviathan, 1983, 2. Jg., S. 214ff.; Volker Neumann, Entzauberung des Rechts? Franz Neumann und Carl Schmitt, in: Samuel Salzborn[wp] (Hrsg.), Kritische Theorie des Staates, Staat und Recht bei Franz Neumann, 2009, S. 79-107
  22. Otto Kirchheimer, Legalität und Legitimität, in: Die Gesellschaft, Band 2, Heft 7, 1932, abgedruckt in: Otto Kirchheimer, Politische Herrschaft - Fünf Beiträge zur Lehre vom Staat, 4. Aufl. 1981, S. 1 ff. Zur Bezugnahme Schmitts auf diese Arbeit Kirchheimers s. Carl Schmitt, Legalität und Legitimität, 1932, 5. Aufl. 1993, S. 14
  23. S. die Tagebucheintragungen Carl Schmitts von 7.5., 23.7. und 4. August 1931, zitiert nach Seiberth, Anwalt des Reiches, 2001, S. 86 FN 40
  24. Ernst Fraenkel, Verfassungsreform und Sozialdemokratie, Die Gesellschaft, IX, 1932, S. 297 ff
  25. Lutz Berthold, Carl Schmitt und der Staats­notstands­plan am Ende der Weimarer Republik, 1999. Siehe auch die Rezension des Buches von Michael Stolleis[wp], in: Historische Zeitschrift, Sonderheft 19, 2000, S. 70 f. Hier heißt es: "Schmitt [ging] tatsächlich bis Ende Januar 1933 davon aus, durch eine begrenzte und kontrollierte Überschreitung des Verfassungstextes die Verfassung retten zu können. Diesen Eindruck gewinnt man auch aus den Tagebuch­notizen Schmitts. Seine Entscheidung, für den Nationalsozialismus zu optieren, fiel erst mit dem Ermächtigungsgesetz vom 24. März 1933."
  26. Wolfram Pyta, Verfassungsumbau, Staatsnotstand und Querfront: Schleichers Versuche zur Fernhaltung Hitlers von der Reichskanzlerschaft August 1932-Januar 1933, in: Wolfram Pyta / Ludwig Richter (Hg.), Gestaltungskraft des Politischen, Festschrift für Eberhard Kolb, 1988, S. 173ff. Darin auch die Beschreibung der Rolle Schmitts als "juristischer Berater Schleichers" (S. 177). Auch Bernd Rüthers[wp] urteilt: "Nach dem gesicherten Stand der Forschung [hatte] Schmitt bis zur Machtübergabe an Hitler 1933 für diesen und die Nationalsozialisten keinerlei Sympathie gezeigt. Er war zwar in seinen Grundpositionen zutiefst antidemokratisch, antiparlamentarisch und antiliberal, aber sein Ziel war es, die gleichsam aristokratische Diktatur des Reichspräsidenten zu legitimieren und zu stärken. Es ging [...] letztlich darum, ein präsidial-autoritäres System mit plebiszitären Elementen zu errichten, zu Lasten der Rolle des Parlaments. Schmitt war [...] ganz 'der Mann Schleichers'". Bernd Rüthers: Anwalt des Reiches NJW, 2002, Heft 51, S. 3762
  27. Vittorio Hösle[wp], Carl Schmitts Kritik an der Selbstaufhebung einer wert­neutralen Verfassung in 'Legalität und Legitimität', in: Deutsche Viertel­jahres­schrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte 61/1987, 1 ff
  28. Der Historiker Heinrich August Winkler[wp] schreibt: "Die Weimarer Verfassung sei, so hat einer ihrer schärfsten Kritiker, der Staatsrechtler Carl Schmitt, im Sommer 1932 formuliert, von einem inhaltlich indifferenten, selbst gegen seine Geltung neutralen, von jeder materiellen Gerechtigkeit absehenden Legalitäts­begriff geprägt und infolgedessen neutral bis zum Selbstmord gewesen. Die Kritik Schmitts, der damals noch kein Parteigänger der Nationalsozialisten, sondern ein Verteidiger des Präsidial­systems war, traf ins Schwarze: Die Reichsverfassung war relativistisch. Im Jahr 1919 war freilich an eine abwehrbereite Demokratie, die ihren Feinden vorsorglich den Kampf ansagte, gar nicht zu denken." Winkler, Auf ewig in Hitlers Schatten? Anmerkungen zur Deutschen Geschichte, 2007
  29. So etwa Heinrich Muth, Carl Schmitt in der Deutschen Innenpolitik des Sommers 1932, in: Historische Zeitung, Beiheft 1, 1971, S. 75ff. S. auch Dieter Grimm[wp], Verfassungs­erfüllung - Verfassungs­bewahrung - Verfassungs­auflösung, Positionen der Staats­rechts­lehre in der Staatskrise der Weimarer Republik, in: Heinrich August Winkler (Hg.), Die deutsche Staatskrise 1930-1933 - Handlungs­spielräume und Alternativen, 1992, S. 183ff
  30. z. B. Lutz Berthold, Carl Schmitt und der Staatsnotstandsplan, 1999; Wolfram Pyta, Schmitts Begriffsbestimmung im politischen Kontext, in: Reinhard Mehring (Hg.): Carl Schmitt. Der Begriff des Politischen. Ein kooperativer Kommentar. Berlin 2003, S. 219-236; Wolfram Pyta / Gabriel Seiberth, Die Staatskrise der Weimarer Republik im Spiegel des Tagebuchs von Carl Schmitt, in: Der Staat 38 Heft 3 und 4, 1999; siehe dazu etwa auch Paul Noack: Schleichers Außerkraftsetzer, FAZ am 20. November 2001, Nr. 270 / S. 10; Thomas Wirtz, Alle sehr deprimiert - Staatskrise der Weimarer Republik: Carl Schmitts Tagebücher, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 13. September 2000
  31. Andreas Kaiser, Preußen contra Reich - Hermann Heller als Prozessgegner Carl Schmitts vor dem Staats­gerichtshof 1932, in: Christoph Müller / Ilse Staff (Hg.), Der soziale Rechtsstaat - Gedächtnisschrift für Hermann Heller 1891-1933, 1984, S. 287ff.; Gabriel Seiberth, Anwalt des Reiches - Carl Schmitt und der Prozess Preußen contra Reich vor dem Staats­gerichtshof, 2001
  32. Abgedruckt u. a. bei Berthold, S. 81 f
  33. Zitiert nach Noack, S. 159
  34. Abgedruckt in "Carl Schmitt und der 30. Januar 1933" (FAZ (Geisteswissenschaften), 6. Juni 2006). S. auch Wolfgang Schuller/Gerd Giesler, Carl Schmitt - Tagebücher 1930-1934, 2010. Zu Schmitts Position in der Weimarer Endphase urteilt ein Beobachter: "Wie neuere Untersuchungen auf der Basis der Tagebücher Schmitts plausibel machen, war Schmitt zwischen August und etwa dem 9. Dezember 1932 Anhänger und zum Teil auch verfassungsrechtlicher Konstrukteur des Schleicher-Plans: die Präsidialregierung sollte durch Präsidial­proklamation autorisiert werden, sowohl Misstrauens­voten des Reichstages gegen die Regierung als auch sein Aufhebungs­recht gegenüber Not­ver­ordnungen zu ignorieren, um ein von parlamentarischer 'Obstruktion' aber auch Kontrolle unabhängiges Regieren zu ermöglichen. Nachdem sich Hindenburg gegen den Schleicher-Plan und für die von Papen propagierte scheinbar verfassungs­konformere Option zugunsten Hitlers entschieden hatte, sah sich Schmitt genötigt, den von ihm selbst mitinszenierten 'Hindenburg-Mythos' zu demontieren und sein vormaliges Engagement für den Schleicher-Plan unkenntlich zu machen, um sich kurz darauf (unmittelbar im Anschluß an die Verabschiedung des Ermächtigungsgesetzes) als Hitler-Protagonist der ersten Stunde zu präsentieren." vgl. auch Ulrich Thiele: "Demokratische Diktatur" - Carl Schmitts Interpretation der politischen Philosophie der Aufklärung, Vortragstext (doc-Datei) (IPC-Tagung: Politische Theorien der Gegenaufklärung: Zur aktuellen Rezeption und Wirkung Carl Schmitts, 16.-18. Oktober 2003), S. 14
  35. Alfons Söllner, Kronjurist des Dritten Reiches - Das Bild Carl Schmitts in den Schriften der Emigranten, in: Jahrbuch für Antisemitismus­forschung, 1992, Band 1
  36. S. Ewald Grothe, Carl Schmitt und die "neuen Aufgaben der Verfassungsgeschichte" im Nationalsozialismus, in: Forum Historiae Iuris, 31. März 2006 (Internet)
  37. Der Führer schützt das Recht, DJZ vom 1. August 1934, Heft 15, 39. Jahrgang, Spalten 945-950. Kompletter Artikel online: PDF
  38. Zu Schmitts Antisemitismus vgl. Raphael Gross, Carl Schmitt und die Juden. Eine deutsche Rechtslehre, 2. Auflage 2005; ders. Carl Schmitts Nomos und die Juden, in: Merkur, Mai 1993, Heft 5; ders. Jesus oder Christus? Überlegungen zur Judenfrage in der politischen Theologie Carl Schmitts, in: Dirk van Laak u. a. (Hg.), Metamorphosen des Politischen, 1995, S. 75ff
  39. DJZ 40/1935
  40. Vgl. Zeitschrift der Akademie für deutsches Recht, Bd. 3, 1936, S. 205
  41. Das Judentum in der deutschen Rechtswissenschaft. Ansprachen, Vorträge und Ergebnisse der Tagung der Reichsgruppe Hochschullehrer im NRSB am 3. und 4. Oktober 1936, Heft 1, Berlin 1936, S. 29 f.
  42. Reinhard Mehring: Carl Schmitt und der Antisemitismus. Ein unbekannter Text, in: Forum Historiae Iuris, März 2006
  43. Christian Linder: Freund oder Feind, Lettre International, Heft 68, 2005
  44. Frank-Rutger Hausmann: Die Aktion Ritterbusch - Auf dem Weg zum Politischen: Carl Schmitt und der Kriegseinsatz der deutschen Geisteswissenschaft, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung, Samstag, 13. März 1999, Nr. 61, II (Bilder und Zeiten)
  45. Claus Dietrich Wieland, Carl Schmitt in Nürnberg (1947), in: 1999. Zeitschrift für Sozialgeschichte des 20. und 21. Jahrhunderts, Heft 1/1987, S. 96-122; Joseph W. Bendersky, Carl Schmitt at Nuremberg, in: Telos, Summer 1987, No. 72, S. 91 ff.; ansonsten: Robert M.W. Kempner, Das Dritte Reich im Kreuzverhör, 1969. Zitiert nach Noack, S. 242 und Linder, Freund oder Feind, Lettre, S. 83 f
  46. Carl Schmitt, Antworten in Nürnberg, hg. u. komment. von Helmut Quaritsch, 2000, S. 60
  47. Schmitt kannte Stirners Werk "seit Unterprima". 1907 empfand er ihn als wohltuendes Antidot[wp]gegen den "Ich-Wahn" des nietzscheanisch beeinflussten Berliner Establishments. - Carl Schmitt: Weisheit der Zelle. In: ders.: Ex captivitate salus. Köln: Greven-Verlag 1950, S. 79-91. Vgl. auch Carl Schmitt: Glossarium. Aufzeichnungen der Jahre 1947-1951, hg. v. Eberhard Frh. von Medem, Berlin: Duncker & Humblot 1991 (bis Juli 1948). Für eine ausführliche Behandlung des Verhältnisses Schmitt/Stirner vgl. Bernd A. Laska: 9Katechon : und 9Anarch :. Carl Schmitts und Ernst Jüngers Reaktionen auf Max Stirner. Nürnberg: LSR-Verlag 1997, S. 13-39
  48. Hans J. Lietzmann, Carl Schmitt alias Dr. Haustein - Anmerkungen zu einem Theorie- und Lebenskonzept zwischen "Occasionalität" und Opportunismus, in: Klaus Hansen/Hans J. Lietzmann (Hg.), Carl Schmitt und die Liberalismuskritik, 1988, S. 157-170
  49. Dazu etwa David Chandler, The Revival of Carl Schmitt in International Relations: The Last Refuge of Critical Theorists?, in: Millennium: Journal of International Studies Vol. 37 No. 1, pp. 27-48 (PDF)
  50. Dazu etwa Mathias Schmoeckel, Carl Schmitts Begriff des Partisanen - Fragen zur Rechtsgeschichte des Partisanen und Terroristen, in: Forum Historiae Iuris 31. März 2006; Jan-Werner Müller, 'An Irregularity that Cannot be Regulated': Carl Schmitt's Theory of the Partisan and the 'War on Terror', Notizie di Politeia: Rivista di Etica e Scelte Pubbliche, Vol. XXII (2006) (PDF)
  51. Glossarium, S. 272
  52. zitiert nach Noack, S. 209, s. auch Linder, S. 93
  53. Eine Festschrift, in: Juristenzeitung 14 (1959), 729-731
  54. Glossarium, S. 265
  55. Glossarium, S. 267
  56. so Raphael Gross, Carl Schmitt und die Juden, 2000, S. 32, S. 312, S. 366
  57. Das Zitat stellt offenbar das Kurzreferat eines Absatzes von Peter F. Drucker[wp], The end of economic man (1939) dar. So jedenfalls Andreas Raithel, Carl Schmitt exzerpierte nur, FAZ am 15. August 2000 (Leserbrief). Hier wird auch der komplette Abschnitt aus Druckers Werk zitiert: "For the individual Communist can always recant; but 'once a Jew, always a Jew'... Nazi anti-Semitism is therefore due neither to the irreconcilable conflict between the Nordic and the Semitic principle as the Nazis assert, nor to the inherent anti-Semitism of the German people, as is so often said in the outside world. It has been caused precisely by the absence of any distinction, conflict and strangeness between the German Jews and a large part of the German people - to wit, the liberal middle classes. The Nazis do not persecute the Jews because they remained a foreign body within Germany, but actually because they had become almost completely assimilated and had ceased to be Jews. It is therefore quite irrelevant what the Jews really are, or what their character, their actions, and their thoughts are. The famous Protocols of Zion can be proved a hundred times a clumsy forgery; they must be genuine, as the Jewish conspiracy against Germany must be real." (Drucker, The End of Economic Man, Seite 158 folgende, zitiert nach FAZ (PDF; 104 kB). Drucker, selbst Jude und mit Hans Kelsen verwandt (gregorbrand), war nach 1945 Unternehmensberater und Nestor der Managementlehre (Biographie). Er kannte Schmitt bereits aus der Weimarer Zeit (peterdrucker.at). Auch Wolfgang Spindler schreibt: "Das Wort vom sich gleichbleibenden, assimilierten Juden als dem 'wahren Feind' stammt nämlich gar nicht von dem Staatsrechtler. Es handelt sich um ein ungenaues Exzerpt aus dem von Schmitt erwähnten Buch 'The End of Economic Man - A Study of the New Totalitarism' von Peter F. Drucker." Wolfgang Spindler, In Schmitts Welt, Carl Schmitt in der deutschsprachigen Literatur, Die Neue Ordnung, Nr. 6/2005, Dezember, Jg. 59 (Internet)
  58. Glossarium, S. 18
  59. "Ich glaube an den Katechon: er ist für mich die einzige Möglichkeit, als Christ Geschichte[wp] zu verstehen und sinnvoll zu finden." (Glossarium, S. 63, Dez. 1947)
  60. Zitiert nach Christian Linder, Freund oder Feind, Lettre International, Heft 68, 2005, S. 95. Zeitlebens habe Schmitt Angst vor Wellen und Strahlen gehabt. Radio oder Fernsehen ließ er Berichten zufolge in seiner Wohnung nicht zu, damit nicht "Ungebetenes wie Wellen oder Strahlungen" in seinen Raum eindringen konnte. Schon in der Zeit des Nationalsozialismus[wp]habe, wenn jemand eine Rede des Führers habe hören wollen, ein Radio ausgeliehen werden müssen. S. Linder, S. 84
  61. die Inschrift kai nómon egno (etwa: "Er kannte den Nomos[wp]") war von seiner vor ihm verstorbenen Tochter Anima entworfen worden. Bild des Grabes
  62. Christian Linder, Freund oder Feind, Lettre International, Heft 68, 2005, S. 92
  63. Theodor Däublers Nordlicht, S. 59
  64. Nordlicht, S. 62f. und S. 67
  65. Glossarium, 16. Juni 1948, S. 165)
  66. Politische Theologie, S. 63
  67. Politische Romantik, S. 172 f
  68. Vertretung einer Gesamtheit von Personen durch eine einzelne Person oder Gruppe
  69. Politische Theologie, S. 43
  70. Thomas Uwer (Hg.), Bitte bewahren Sie Ruhe. Leben im Feindrechtsstaat, Schriftenreihe der Strafverteidiger­vereinigungen, Berlin 2006
  71. Die Debatte wurde dadurch ausgelöst, dass sich Bundesinnenminister Wolfgang Schäuble am 19. Juli 2007 in einem Interview mit der ZEIT direkt auf Depenheuer bezog. Die Frage lautete: "Selbst ein so gefestigter Rechtsstaat wie die Vereinigten Staaten tut sich offenbar schwer damit, diese rechtsstaatlichen Grenzen einzuhalten, Stichwort Guantánamo[wp]. Der Kampf gegen den Terror scheint den Rechtsstaat bis an seine Grenzen zu fordern - und darüber hinaus?" Schäuble antwortete: "Lesen Sie einmal das Buch Selbstbehauptung des Rechtsstaats von Otto Depenheuer, und verschaffen Sie sich einen aktuellen Stand zur Diskussion." (CDU Archiv). Diese Bemerkung wurde als Zustimmung Schäubles zu Depenheuer interpretiert, und damit indirekt auf Carl Schmitt. Dazu David Salomon, Carl Schmitt Reloaded - Otto Depenheuer und der 'Rechtsstaat', PROKLA. Zeitschrift für kritische Sozialwissenschaft, Heft 152, 38. Jg., 2008, Nr. 3 (PDF)
  72. vgl. als frühe Arbeit Christian Graf v. Krockow[wp], Die Entscheidung. Eine Untersuchung über Ernst Jünger, Carl Schmitt, Martin Heidegger, Stuttgart 1958
  73. Carl Schmitt, 2004
  74. 74,0 74,1 Campagna, S. 22
  75. Campagna, S. 35
  76. Politische Theologie, S. 19
  77. Politische Theologie, S. 24f
  78. Legalität und Legitimität, S. 56 f
  79. Campagna, S. 54
  80. Politische Theologie, S. 21
  81. Hermann Heller, Politische Demokratie und soziale Homogenität (1928), in: M. Drath u. a. (Hrsg.), Hermann Heller: Gesammelte Schriften, 2. Band, S. 421-433 (428)
  82. S. Forum Historiae Iuris, 12. Mai 2003
  83. 83,0 83,1 Diktatur, XVII
  84. Campagna, S. 20
  85. auch Politische Theologie, S. 29
  86. Legalität und Legitimität, S. 46 f
  87. 87,0 87,1 Begriff des Politischen, 1932, S. 55
  88. Es ist die Spiegelung einer Aussage von Clausewitz[wp]: "Der Krieg ist eine bloße Fortsetzung der Politik mit anderen Mitteln." - Vom Kriege, 1. Buch, 1. Kapitel, Unterkapitel 24 (Überschrift); "Der Krieg ist nichts als eine Fortsetzung des politischen Verkehrs mit Einmischung anderer Mittel, um damit zugleich zu behaupten, daß dieser politische Verkehr durch den Krieg selbst nicht aufhört, nicht in etwas anderes verwandelt wird, sondern daß er in seinem Wesen fortbesteht, wie auch die Mittel gestaltet sein mögen, deren er sich bedient." - Vom Kriege, 1. Buch, 1. Kapitel, Unterkapitel 24 (Wortlaut)
  89. 89,0 89,1 "Positionen und Begriffe im Kampf mit Weimar - Genf - Versailles", 1940, S. 240
  90. Mathias Schmoeckel, Carl Schmitts Begriff des Partisanen - Fragen zur Rechtsgeschichte des Partisanen und Terroristen, in: Froum Historiae Iuris, 31. März 2006; Markus Vasek, Mit Carl Schmitt nach Guantánamo: der Terrorist, ein moderner Partisan?, Juridikum. Zeitschrift für Kritik, Recht, Gesellschaft, Wien 2009, 1, S. 18-20; s. auch zur Frage politischer Motivation piratischer Akte und der Übertragbarkeit auf den modernen Terrorismus: Olivier Gänsewein, Michael Kempe, Die Feinde der Welt - Sind internationale Terroristen die neuen Piraten?, in: FAZ, 25. September 2007, S. 36: "Piraterie und Terrorismus sind Phänomene der permanenten Grenzüberschreitung und Aufhebung von Unterscheidungen, etwa der Unterscheidung von Krieg und Frieden, von regulärer und irregulärer Kriegsführung, von Militär und Zivilbevölkerung, von Staatlichkeit und Privatheit oder von Freund und Feind."
  91. Thomas Marschler: Kirchenrecht im Bannkreis Carl Schmitts. Hans Barion vor und nach 1945, Bonn 2004
  92. S. auch Ernst-Wolfgang Böckenförde, Der verdrängte Ausnahmezustand (Carl Schmitt zum 90. Geburtstag) - Zum Handeln der Staatsgewalt in außergewöhnlichen Lagen, in: NJW 1978, S. 1881 bis 1890; Ernst-Wolfgang Böckenförde: Der Begriff des Politischen als Schlüssel zum staatsrechtlichen Werk Carl Schmitts; in: ders. Recht, Staat, Freiheit. Studien zur Rechtsphilosophie, Staatstheorie und Verfassungsgeschichte. Frankfurt am Main: Suhrkamp Verlag, 1991; S. 344-366. 4. Aufl. 2006
  93. Zur inhaltlichen Anknüpfung Isensees an Schmitt s. etwa Josef Isensee, Bundesverfassungsgericht - Quo vadis?, in: Verhandlungen des 61. Deutschen Juristentages, Band II/1, Abschnitt H
  94. s. etwa Dirk van Laak, Gespräche in der Sicherheit des Schweigens. Carl Schmitt in der politischen Geistesgeschichte der frühen Bundesrepublik, 1993 oder Frieder Günter, Denken vom Staat her. Die bundesdeutsche Staatsrechtslehre zwischen Dezision und Integration 1949-1970, 2004; Günter spricht in Anlehnung an Ludwik Fleck[wp] (ders., Entstehung und Entwicklung einer wissenschaftlichen Tatsache. Einführung in die Lehre vom Denkstil und Denkkollektiv, 1935) auch von den sich formierenden "Denkkollektiven" der Smend- und Schmitt-Schule (s. dazu etwa die Rezension von Reinhard Mehring in H-Soz-u-Kult)
  95. Dirk van Laak urteilt: "Ernst-Wolfgang Böckenförde ist heute der wohl eminenteste Jurist aus dem direkten Umkreis Schmitts, der nicht nur einzelne von dessen Themen aufgriff, sondern Schmitts Fragehorizonte geradezu systematisch abgeschritten hat. [...] Dabei hat es Böckenförde verstanden, den programmatischen Blick Schmitts auf die Entstehung des Staates und des Rechts wie dessen politisch-theologische Perspektive entschieden rechtsstaatlich und freiheitsorientiert zu wenden. In dieser Hinsicht darf er als Schmitts legitimer Nachfolger bezeichnet werden." Dirk van Laak, Gespräche in der Sicherheit des Schweigens - Carl Schmitt in der politischen Geistesgeschichte der frühen Bundesrepublik, 1993, S. 213
  96. Lutz Hachmeister und Stefan Krings, Rudolf Augstein rief Carl Schmitt zu Hilfe, FAZ, 22. August 2007, FAZ, 23. August 2007, Nr. 195, S. 29. Augstein wollte gegen eine bundesweite Beschlagnahmung der Nr. 28 des SPIEGEL durch Konrad Adenauer[wp] eine Verfassungsbeschwerde einreichen. Dazu ersuchte er Schmitt um juristische Unterstützung. Er bemerkt in einem Brief, dass er sich bei Schmitt "freundschaftlicher Nachsicht einigermaßen sicher" fühle. Er besuchte Schmitt auch persönlich, den das "publizistische und strategische Gesamtproblem einer solchen Verfassungsbeschwerde" interessierte. Die Sache verlief jedoch im Sande.
  97. Wolfgang Huebener, Carl Schmitt und Hans Blumenberg oder über Kette und Schuß in der historischen Textur der Moderne, in: Jacob Taubes (Hg.), Der Fürst dieser Welt. Carl Schmitt und die Folgen, 1983, S. 57-76
  98. Reinhard Mehring, Karl Löwith, Carl Schmitt, Jacob Taubes und das "Ende der Geschichte", in: Zeitschrift für Religions- und Geistesgeschichte[wp], 48, 1996, S. 231-248; Zur Beschäftigung Löwiths mit Schmitt s. auch: Karl Löwith[wp]: Der okkasionelle Dezisionismus von Carl Schmitt. in: Sämtliche Schriften, Band 8 (Heidegger), Stuttgart 1984, S. 32-71
  99. S. etwa Volker Neumann, Carl Schmitt und die Linke, in: Die Zeit, 8. Juli 1983, Nr. 28, S. 32
  100. Ernst Bloch, Naturrecht und menschliche Würde, 1961, S. 62
  101. Martin Jay[wp], Reconciling the Irreconcilable: A Rejoinder to Kennedy, Ulrich K. Preuß[wp], The Critique of German Liberalism: A Reply to Kennedy) und Alfons Söllner[wp], Beyond Carl Schmitt: Political Theory in the Frankfurt School; Zur Parlamentarismuskritik von Habermas vgl., Hartmuth Becker, Die Parlamentarismuskritik bei Carl Schmitt und Jürgen Habermas, Berlin 2003, 2. Aufl
  102. Ellen Kennedy, Carl Schmitt und die Frankfurter Schule in Geschichte und Gesellschaft 12/1986, 380 ff. Englische Fassung ("Carl Schmitt and the Frankfurt School") in: TELOS 71, Spring 1987
  103. Die Frankfurter Schule der Achtundsechziger[wp], Leserbrief, FAZ 14. August 2008, S. 8
  104. Reinhard Mehring: Der "Nomos" nach 1945 bei Carl Schmitt und Jürgen Habermas, Forum Historiae Iuris, 31. März 2006. Siehe auch: Reinhard Mehring: Carl Schmitt - zur Einführung. Hamburg 1992
  105. Wilhelm Hennis, Verfassung und Verfassungswirklichkeit: Ein deutsches Problem; Freiburger Antrittsvorlesung vom 5. Juli 1968, 1968, S 35
  106. Zitiert nach: Stephan Schlak, Wilhelm Hennis - Szenen einer Ideengeschichte der Bundesrepublik, 2007, S. 117
  107. Friedrich Balke: Punkte problematischer Solidarität. Hannah Arendt, Carl Schmitt und die Furcht vor den Massen. - In: Intellektuelle im Nationalsozialismus. Wolfgang Bialas, Manfred Gangl. Frankfurt/M.: Peter Lang 2000, S. 210-227; Ansonsten siehe zu Arendt und Schmitt: Philipp zum Kolk, Hannah Arendt und Carl Schmitt. Ausnahme und Normalität - Staat und Politik. Peter Lang, Frankfurt am Main [u. a.] 2009; Andreas Herberg-Rothe, "Hannah Arendt und Carl Schmitt - Vermittlung von Freund und Feind", in: Der Staat, Heft 1/ März 2004, S. 35-55; Christian J. Emden: Carl Schmitt, Hannah Arendt and the Limits of Liberalism, Telos 2008 (142), S. 110-134 (PDF), Hans Sluga, The Pluralism of the Political: From Carl Schmitt to Hannah Arendt, Telos 142 (Spring 2008), S. 91-109 (PDF)
  108. deutsche Erstveröffentlichung 1955
  109. ungekürzte Taschenbuchausgabe von 1986, S. 724. Im US-amerikanischen Original Origins of Totalitarianism von 1951 heißt es: "Most interesting is the example of the jurist Carl Schmitt, whose very ingenious theories about the end of democracy and legal government still make arresting reading; as early as the middle thirties, he was replaced by the Nazi's own brand of political and legal theorists." See Hannah Arendt, The Origins of Totalitarianism (New York: Harcourt, Brace and Company, 1951), p. 332. Zitiert nach: Christian J. Emden: Carl Schmitt, Hannah Arendt and the Limits of Liberalism, Telos 2008 (142), S. 114 (PDF). Auch an anderen Stellen zitiert Arendt Schmitt zustimmend, etwa wenn es heißt, Schmitt sei "the most able defender of the notion of sovereignty" oder "He (Schmitt) recognizes clearly that the root of sovereignty is the will: Sovereign is he who wills and commands." Zitiert nach Emden, S. 115
  110. S. 369 ff
  111. S. 531, S. 551 f.
  112. So etwa Annette Vowinckel: Arendt (Grundwissen Philosophie) Leipzig 2006, S. 45 f
  113. Am 7. September 1932 schrieb Neumann an Schmitt: "Ich stimme in den kritischen Teil des Buches [Legalität und Legitimität] restlos mit Ihnen überein. Auch ich stehe auf dem Standpunkt, dass die parlamentarische Demokratie nicht mehr so lange funktionieren kann, wie die Durchführung des Prinzips der gleichen Chance möglich ist. Stellt sich heraus, daß dieser Grundsatz zur Gewinnung innerpolitischer Macht versagt, dann muß notwendig auch der parlamentarische Gesetzgebungsstaat handlungsunfähig werden. [...] Stellt man sich nämlich auf den Standpunkt, daß der grundlegende politische Gegensatz in Deutschland der ökonomische Gegensatz ist, daß die entscheidende Freund/Feind-Gruppierung in Deutschland die Gruppierung Arbeit und Eigentum ist, so leuchtet ein, daß bei einer solchen politischen Gegensätzlichkeit parlamentarisch nicht mehr regiert werden kann." (abgedruckt in Rainer Erd: Reform und Resignation, 1985, S. 79 f.)
  114. Hans J. Lietzmann, Von der konstitutionellen zur totalitären Diktatur - Carl Joachim Friedrichs Totalitarismustheorie, in: Alfons Söllner, Ralf Walkenhaus, Karin Wieland, Totalitarismus, Eine Ideengeschichte Des 20. Jahrhunderts, 1994, S. 174 ff.: "Wer die klassische Totalitarismustheorie Carl Joachim Friedrichs verstehen will, muß Carl Schmitt lesen. [...] Aus jener Zeit datieren die ersten Stellungnahmen Friedrichs zu diesem Thema; und er formuliert sie in unmittelbarer Anlehnung an Carl Schmitts Diktaturtheorie von 1921" (S. 174)
  115. Benjamin schrieb an Schmitt: "Vielleicht darf ich auch Ihnen darüber hinausgehend sagen, daß ich auch in Ihren späteren Werken, vor allem der Diktatur eine Bestätigung meiner kunstphilosophischen Forschungsweisen durch ihre staatsphilosophischen entnommen habe." (zitiert nach Noack, S. 111); Theodor W. Adorno[wp] ließ diesen Brief in den von ihm 1955 herausgegebenen Schriften außen vor, um die Verbindung Schmitt-Benjamin zu verschweigen. Schmitt selbst zitierte das Trauerspiel-Werk Benjamins später ausführlich in seiner kleinen kunsttheoretischen Betrachtung Hamlet oder Hekuba - Der Einbruch der Zeit in das Spiel (1956)
  116. Hans Matthias Kepplinger, Rechte Leute von links. Gewaltkult und Innerlichkeit, 1970; Christian Linder, Der lange Sommer der Romantik. Über Hans-Magnus Enzensberger, in: Literaturmagazin 4, 1975 S. 85-107. Vgl. auch Christian Linder, Freund oder Feind, in: Lettre International, Heft 68, 2005, S. 84f. S. auch die Bemerkungen bei Tae-Ho Kang, Poesie als Selbstkritik - Hans Magnus Enzensbergers negative Poetik, Dissertation, 2002, S. 3f. (PDF)
  117. Schickel, Gespräche mit Carl Schmitt, 1993, S. 9
  118. Rainer Blasius, Seitenwechsel und Veränderung - 1968 bis 1973 im deutsch-italienischen Vergleich: Johannes Agnolis Parlamentarismuskritik, FAZ, 12. Dezember 2006 mit einem Bericht über die Tagung "Krisenzeiten von 1968 bis 1973" am Comer See. Dort auch die Wiedergabe des Referats von Kraushaar mit dem Titel: "Die Entstehung außerparlamentarisch agierender oppositioneller Gruppen und ihre Wirkung auf Politik, Gesellschaft und Kultur"
  119. Jens Litten / Rüdiger Altmann, Von der TV-Demokratie. Die Aggressivität des Fortschritts, Deutsches Allgemeines Sonntagsblatt, XXIII, 26./28. Juni 1970, S. 8 (Auszüge aus dem Gespräch mit Schmitt sowie eine Einleitung von Jens Litten mit dem Titel: "Geschmäht und auch bewundert. Über ein Gespräch mit Professor Carl Schmitt".)
  120. Vergleiche auch den persönlichen Bericht von Lutz Niethammer[wp] in einem Vortrag einer Tagung des Max-Planck-Instituts für Geschichte aus dem März 2000 über die Rolle der Kulturwissenschaften im Nationalsozialismus: "Was mir damals weniger bewußt war, erfuhr ich in der folgenden Zeit mit wachsendem Erstaunen - nämlich die Faszination Schmitts auch für die Linke. In Heidelberg war seinerzeit nur darüber getuschelt worden, daß Jürgen Habermas' Konzeption der bürgerlichen Offenheit in seiner Habilitationsschrift auffallende Ähnlichkeiten zu derjenigen Schmitts aufwies. Später konnte ich - in sehr unterschiedlichen Formen - diese Faszination bei - mir Linksliberalem nahestehenden, aber zeitweise wesentlich linkeren - Kollegen wie Dieter Groh[wp], Jacob Taubes, Dan Diner[wp], Nicolaus Sombart[wp] oder Jürgen Seifert[wp]auch persönlich entdecken, was mich besonders bei zwei so bewußten Juden wie Taubes und Diner angesichts des eliminatorischen Antisemitismus Schmitts mindestens zwischen 1933 und 1936 und der auf Juden bezogenen Grundspannung seines Lebenswerks noch einmal mehr verwunderte. Seither hat sich diese Spur ja noch sehr verbreitert: erinnert sei hier nur etwa an Ellen Kennedys Ausgrabung von Walter Benjamins Huldigung an C.S., die Bekehrung des Maoisten Günter Maschke zur Schmitt-Gelehrsamkeit, den Umstand, daß die führende New Yorker '68er-Zeitschrift 'Telos' in den 1980ern zu einer Art amerikanischer Importagentur für Schmitts Werk geworden ist, daß Heiner Müller[wp] am Ende der DDR von nichts so sehr fasziniert schien wie von Jünger und Schmitt, daß der Demokratiebegriff der westdeutschen '68er unbewußt - und derjenige der ersten DDR-Verfassung bewußt - auf einer höchst problematischen Begriffskonstruktion Schmitts beruhte. [...] Unter den jüngeren Schmittianern waren [...] auch zu radikalen Ausschlägen neigende Irrlichter wie Bernard Willms[wp], der die 70er Jahre als Ultra-Linker begann und als Ultra-Rechter beendete und damit eine auch sonst seither in z. T. weniger extremer Form (siehe z. B. Bahro[wp], Enzensberger[wp], Sloterdijk[wp], Botho Strauß[wp] oder auch noch extremer der RAF[wp]- und NPD[wp]-Anwalt Mahler[wp]) beobachtbare, aber gottlob nicht allgemeine Tendenz verkürzte." Lutz Niethammer, Die polemische Anstrengung des Begriffs - Über die exemplarische Faszination Carl Schmitts, in: Hartmut Lehmann, Otto Gerhard Oexle (Hg.), Nationalsozialismus in den Kulturwissenschaften, Band 2, 2004, S. 41-82 (S. 49)
  121. Heinrich Oberreuter, Mehr Demokratie wagen? Parlamentarismuskritik und Parlamentsformen in den 60er und 70er Jahren, in: Von Marie-Luise Recker (Hg.), Parlamentarismus in Europa, Schriften des Historischen Kollegs Kolloquien 60, 2002, S. 183
  122. Volker Neumann: Carl Schmitt und die Linke, Die Zeit Nr. 28/1983, 8. Juli 1983
  123. Leonard Landois, Konterrevolution von links: Das Staats- und Gesellschaftsverständnis der '68er' und dessen Quellen bei Carl Schmitt. (Würzburger Universitäts­schriften zu Geschichte und Politik 11), Nomos-Verlag, Baden-Baden 2008. Armin Pfahl-Traughber[wp] kommentierten: "Insbesondere bei Johannes Agnoli und Hans-Jürgen Krahl, zwei bedeutenden Theoretikern der Achtundsechziger, fielen immer wieder Anklänge an Argumentationsmuster von Carl Schmitt auf. Daher war eine detaillierte Untersuchung dieses Einflusses mehr als nur überfällig." hpd Nr. 5252, 10. September 2008
  124. Götz Aly, Unser Kampf - 1968, 2008, S. 7 (Auszug; PDF; 125 kB)
  125. Timo Frasch, Gute Feinde auf Leben und Tod - Anziehung und Abstoßung: Carl Schmitt und die Achtundsechziger, FAZ, 30. Juli 2008, S. 8
  126. Étienne Balibar: Le Hobbes de Schmitt, le Schmitt de Hobbes, préface de Carl Schmitt, Le Léviathan dans la doctrine de l'État de Thomas Hobbes, tr. Denis Trierweiler (Paris: Seuil 2002), S. 7. S. auch Anselm Haverkamp, Säkularisation als Metapher, Transversalités 87 (2003), 15-28 (deutsch als PDF)
  127. Siehe etwa Yves Charles Zarka, Cités 6 (6. April 2001), S. 3; Yves Charles Zarka, "Carl Schmitt le nazi,Ä in Cités, No. 14 (2003), S. 163
  128. Le cahier livres de Libération, 24. November 1994, S. I-III
  129. Thomas Assheuer, Zur besonderen Verfügung: Carl Schmitt, Kursbuch Heft 166, s. Zeit.de
  130. Armin Pfahl-Traughber, Die "Neue Rechte" in Frankreich und Deutschland - Zur Entwicklung einer rechts­extremistischen Intellektuellenszene, FU-Berlin
  131. Pdf-icon-extern.png Haltung der rechtsextremistischen Szene zum Irak-Konflikt - Innenministerium des Landes Nordrhein-Westfalen, März 2003 (S. 6)
  132. Taubes, Ad Carl Schmitt - Gegenstrebige Fügung, 1987, S. 19
  133. S. dazu etwa Wolfgang Kraushaar, Dies ist keine Bombe - Der Anschlag auf die Jüdische Gemeinde in Berlin vom 9. November 1969 und seine wahren Hintermänner, in: FAZ, 28. Juni 2005, Nr. 147 / Seite 41
  134. Alexander Proelß, Nationalsozialistische Baupläne für das europäische Haus? John Laughland's "The Tainted Source" vor dem Hintergrund der Großraumtheorie Carl Schmitts, in: Forum Historiae Iuris, 12. Mai, 2003
  135. Hans-Peter Folz, Verfassungslehre des Bundes von Carl Schmitt und die Europäische Union, in: Martina Wittkopp-Beine im Auftrag der Stadt Plettenberg (Hg.): Carl Schmitt in der Diskussion. Zusammengestellt von Ingeborg Villinger, Plettenberg 2006, S. 69-83, hier, S. 83
  136. Siehe z. B. 'Theologico-Political Resonance: Carl Schmitt between the Neocons and the Theonomists', in Differences. A Journal of Feminist Cultural Studies, 18, 2007, S. 43-80
  137. So William E. Scheuerman: Carl Schmitt and the Road to Abu Ghraib, in: Constellations, March 2006, S. 108
  138. Vgl. Leo Strauss, Anmerkungen zu Carl Schmitt, Der Begriff des Politischen, Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, Tübingen, 67. Band, 6. Heft, August/September 1932, S. 732-749, abgedruckt und kommentiert bei Heinrich Meier: Carl Schmitt, Leo Strauss und "Der Begriff des Politischen" - Zu einem Dialog unter Abwesenden. 1988; erweit. Neuaufl. Stuttgart 1998
  139. Carl Schmitt: Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, 1923
  140. Carl Schmitt: Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, 1923, S. 8
  141. 141,0 141,1 141,2 141,3 Hubert Brune: Schmitt - Aphorismen
  142. Carl Schmitt: Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, 1923, S. 11
  143. Carl Schmitt: Der Begriff des Politischen, 1927, S. 22
  144. Carl Schmitt: Der Begriff des Politischen, 1927, S. 54

Querverweise

  • Rechtsstaatsverständnis im Nationalsozialismus[wp]

Netzverweise

 

Dieser Artikel basiert gekürzt auf dem Artikel Carl Schmitt (22. Juli 2013) aus der freien Enzyklopädie Wikipedia. Der Wikipedia-Artikel steht unter der Namensnennung - Nicht-kommerziell - Weitergabe unter gleichen Bedingungen 3.0 Unported (CC BY-NC-SA 3.0). In der Wikipedia ist eine Liste der Autorenverfügbar, die vor Übernahme in WikiMANNia am Text mitgearbeitet haben.
Dieser Artikel basiert zusätzlich und auszugsweise auf dem Artikel Carl Schmitt über den Parlamentarismus, die Bühne im Kampf der Meinungen von Christian Barzik, Blaue Narzisse am 6. April 2009.

vendredi, 24 février 2017

Terre et Mer. Un point de vue sur l’histoire mondiale, de Carl Schmitt

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Terre et Mer. Un point de vue sur l’histoire mondiale, de Carl Schmitt

Ex: http://oratio-obscura.blogspot.com 
 
Le mois dernier, nous avions parlé un peu de Kant, et de ce qu’était une histoire de l’humanité conçue de manière téléologique, (une philosophie de l’histoire en somme). Par contraste, l’ouvrage de Carl Schmitt intitulé Terre et Mer offre un point de vue a-théologique sur l’histoire mondiale. L’histoire n’y est pas la conséquence d’un « plan caché de la nature », mais bien le fait des hommes, des sociétés. Elle ne signifie rien et ne mène vers rien (privée de terme, elle ne peut donc être ni perpétuellement en progrès ni perpétuellement en déclin). Il est amusant de voir que pour le catholique Schmitt, l’histoire (du moins dans ce texte), n’est absolument pas gouvernée par une Providence. Dieu a été évacué, la logique du devenir historique repose sur les rapports de force immanents à l’humanité. Il s’agit donc d’une histoire à la fois pourvue d’une certaine intelligibilité (cf p.23) , mais a-signifiante. Sur ce point, Terre et Mer nous semble surpasser même le Manifeste communiste (les deux grilles de lectures n’étant pas incompatibles, comme le souligne Laurent Henninger).
 
« L’homme est un être terrestre, un terrien. La terre ferme est le lieu où il vit, se meut, se déplace. Elle est son sol et son milieu. C’est elle qui fonde ses perspectives, détermine ses impressions, façonne le regard qu’il porte sur le monde. Né sur la terre, évoluant sur elle, l’homme en tire non seulement son horizon, mais son allure, sa démarche, ses mouvements, sa silhouette, sa stature. C’est pourquoi il appelle « terre » l’astre sur lequel il vit bien que la surface du globe soit constituée, on le sait, aux trois quarts d’eau et d’un quart seulement de terre ferme et que même les plus vastes continents ne sont que d’immenses îles flottantes. Et depuis que nous savons que notre terre a une forme sphérique, nous parlons tout naturellement de « globe terrestre ».Imaginer un « globe marin » nous paraîtrait étrange.
 
CSLM-555405.jpgToute notre existence d’ici-bas, notre bonheur, nos malheurs, nos joies et nos peines, sont pour nous la vie « terrestre », c’est-à-dire, selon les sujets, un paradis ou une vallée de larmes. On comprend donc que dans nombre de mythes et de légendes qui expriment les souvenirs et les épreuves les plus lointains et les plus intimes des peuples, la terre apparaisse comme la mère primitive des hommes. Les livres sacrés nous racontent que l’homme, issu de la terre, retournera à la terre. […] Parmi les quatre éléments (la terre, l’eau, l’air et le feu), c’est la terre qui est vouée à l’homme et qui le marque le plus fortement. L’idée qu’il pourrait être marqué aussi fortement par un autre de ces quatre éléments apparaît, de prime abord, chimérique : l’homme n’est ni un poisson ni un oiseau et encore moins un être-du-feu, à supposer que celui-ci puisse exister. » (p.17-18)
 
« Sommes-nous fils de la terre ou de la mer ? La réponse ne peut être tranchée : nous ne sommes ni l’un ni l’autre totalement. » (p.20)
 
« L’homme n’est pas un être entièrement agi par son milieu. Il a le pouvoir de conquérir, par l’histoire, son existence et sa conscience. » (p.22)
 
« L’histoire mondiale est l’histoire de la lutte des puissances maritimes contre les puissances continentales et des puissances continentales contre les puissances maritimes. » (p.23)
 
« Selon les interprétations des cabalistes médiévaux, l’histoire du monde est un combat entre la puissante baleine, le Léviathan, et le non moins puissant Béhémoth, animal terrien que l’on imaginait sous les traits d’un éléphant ou d’un taureau. » (p.23)
 
« A Salamine (480 av. J.C), c’est derrière des murailles de bois (ses vaisseaux) qu’Athènes la libre se défendit contre son ennemi, le « Perse tout puissant » et elle dut son salut à cette bataille navale. Dans la guerre du Péloponnèse, elle-même fut vaincue par Sparte, puissance terrienne, mais celle-ci, justement parce que telle, ne sut pas unifier les cités et ethnies helléniques et prendre la tête d’un empire grec. A l’opposé, Rome qui, chez elle, était une république rurale d’Italie et une puissance purement continentale, se hissa à la dimension impériale dans sa lutte contre Carthage, puissance maritime et commerciale. » (p.24-25)
 
« L’empire romain décadent se voit ravir la domination des mers par les Vandales, les Sarrasins, les Vikings et les Normands. Après une longue suite de revers, les Arabes finissent par prendre Carthage en 698 et fondent Tunis, la nouvelle capitale, instaurant ainsi pour plusieurs siècles leur domination en Méditerranée occidentale. L’empire romain d’Orient, c’est-à-dire l’empire byzantin dirigé de Constantinople, fut un empire côtier. Il disposait encore d’une flotte puissante et possédait de surcroît une arme secrète, le fameux« feu grec ». Pourtant, il fut entièrement réduit à la défensive. En tant que puissance maritime, il put néanmoins accomplir ce que l’empire de Charlemagne, purement continental, ne put réaliser : être une digue, un rempart, un katechon, comme l’on dit en grec ; malgré ses faiblesses, il« tint » plusieurs siècles contre l’Islam, empêchant les Arabes de s’emparer de toute l’Italie. Sans lui, l’Italie aurait été intégrée au monde musulman, comme l’Afrique du Nord, et toute la civilisation antique et chrétienne aurait été détruite. Les croisades favorisèrent alors l’émergence d’une puissance maritime nouvelle dans l’Europe chrétienne : Venise.
 
Un nouveau nom mythique fit son entrée dans la grande politique mondiale : pendant près d’un demi-millénaire, la République de Venise symbolisa la domination des mers, la richesse fondée sur le commerce maritime et ce tour de force qui concilia les exigences d’une haute politique avec « la création la plus étrange de l’histoire économique de tous les temps ». Tout ce que les anglophiles ont admiré dans l’Angleterre, du XVIIIème au XXème siècle, fit déjà le renom de Venise : la grande richesse, la supériorité diplomatique par laquelle la puissance maritime exploitait les rivalités entre puissances continentales et faisait mener ses guerres par d’autres, l’aristocratisme qui semblait avoir résolu le problème de l’ordre politique intérieur, la tolérance religieuse et philosophique, l’asile donné aux idées libérales et à l’émigration politique. A cela s’ajoute la séduction exercée par des fêtes somptueuses et par la beauté artistique. […]
 
Le rayonnement de cette légendaire « reine des mers » s’accrut sans cesse de l’an 1000 à 1500. Vers l’an 1000, Nicéphore Phocas, empereur byzantin, pouvait avec raison proclamer : « La domination des mers dépend de moi seul ». Cinq siècles plus tard, le sultan turc de Constantinople déclara aux Vénitiens : « Jusqu’ici, la mer était votre épouse ; désormais, elle est à moi ».Entre ces deux dates se situe l’époque de la suprématie vénitienne sur l’Adriatique, la Mer Egée et sur la Méditerranée occidentale. C’est de ces années que date la légende qui attirera à Venise, jusqu’aux XIXème et XXème siècles, d’innombrables voyageurs, des romantiques célèbres de toutes les nations européennes, des poètes et des artistes comme Byron, Musset, Wagner et Barrès. Nul n’échappera à l’envoûtement et rien ne serait plus étranger à mon propos que de vouloir ternir l’éclat d’un tel rayonnement. Toutefois, si nous posons la question de savoir si nous sommes là en présence d’un destin purement maritime, d’un choix véritable en faveur de l’élément marin, nous comprenons tout de suite l’exiguïté d’une puissance maritime limitée à l’Adriatique et au seul bassin méditerranéen au moment où s’ouvrent les étendues immenses des océans du globe. » (p.25-27)
 
« Même du point de vue de la technique de navigation, la République de Venise ne quitta pas, jusqu’à son déclin en 1797, la Méditerranée et le Moyen Age. A l’instar des autres peuples méditerranéens, Venise ne connut que le bateau à rames, la galère. C’est de l’Océan atlantique que fut introduite en Méditerranée la grande navigation à voile. » (p.29)
 
« Entre 1450 et 1600, les Hollandais inventèrent plus de nouveaux types de navires que tous les autres peuples. » (p.31)
 
« Les premiers héros d’une existence tournée vers la mer ne furent pas des doges distingués sur leurs navires d’apparat, mais des aventuriers intrépides, des écumeurs des mers, d’audacieux baleiniers, des voiliers téméraires qui sillonnaient les océans. Dans deux domaines essentiels : la chasse à la baleine et la construction navale, les Hollandais furent, au début, le modèle incontesté. » (p.32)
 
« L’Espagne elle-même, pourtant puissance mondiale, dut affréter des vaisseaux hollandais pour pouvoir maintenir ses échanges avec ses comptoirs d’outre-mer. » (p.38)
 
« Le XVIème siècle voit également apparaître le nouveau navire de guerre qui inaugure un âge nouveau de la guerre sur l’eau : un voilier armé de pièces à feu tire par salves, ou bordées, sur son adversaire. Ce type de combat transforme l’affrontement naval en duel d’artillerie à longue distance, livré avec un art extrêmement poussé de la manœuvre à la voile. On peut alors, et alors seulement, parler de batailles navales car, nous l’avons vu, le choc des équipages des galères à rames n’était en fait qu’un combat terrestre livré « à bord ». Ce fut une révolution radicale de la tactique du combat naval et de l’art de la guerre sur mer, la naissance d’un art nouveau et élaboré de la manœuvre avant, pendant et après l’engagement. » (p.38)
 
sail.jpg« Tous les peuples du centre et de l’Ouest de l’Europe participent à la grande épopée de la découverte des terres nouvelles, qui soumit le monde à la domination européenne. […] De grands astronomes et d’éminents géographes allemands contribuent à l’éclosion d’un nouveau regard sur le monde […] Sous son génial ministre de la marine, Colbert, la France du XVIIème siècle surclassa, pour plusieurs décennies, l’Angleterre dans la construction de navires de guerre. » (p.39)
 
« Les corsaires des XVIème et XVIIème siècles représentent un chapitre à part dans l’histoire de la piraterie. Il fallut la paix d’Utrecht (1713) pour les faire disparaître : à cette date, le système européen des Etats se consolida, les flottes de guerre des puissances maritimes pouvaient désormais assurer un contrôle efficace des mers et la nouvelle domination mondiale de l’Angleterre, fondée sur l’élément marin, commençait à s’affirmer. » (p.42)
 
« Tous ces Rochellois, gueux de mer et boucaniers ont un ennemi politique commun : l’Espagne, puissance catholique. Aussi longtemps qu’ils restent fidèles à eux-mêmes, ils ne capturent en principe que les navires catholiques, besogne qu’ils considèrent, en toute bonne conscience, comme bénie de Dieu. Ils participent ainsi d’un grand front de l’histoire mondiale : celui du protestantisme mondial d’alors contre le catholicisme mondial d’alors. » (p.43-44)
 
« Il est vrai que la reine Elisabeth passe pour avoir été la grande fondatrice de la suprématie maritime anglaise et qu’elle a bien mérité ce renom : c’est elle qui engagea la lutte contre la puissance mondiale catholique, l’Espagne. C’est sous son règne que fut vaincue dans les eaux de la Manche l’Armada espagnole (1588). C’est elle également qui honora et encouragea des héros de la mer comme Francis Drake ou Walter Raleigh. C’est elle enfin qui, en 1600, accorda les privilèges commerciaux à la Compagnie anglaise des Indes orientales qui devait plus tard offrir à l’Angleterre l’Inde entière. Au cours des 45 années de son règne (1558-1603), l’Angleterre devint un pays riche, ce qu’elle n’avait jamais été auparavant. Autrefois, les Anglais étaient des éleveurs de moutons qui vendaient leur laine en Flandre ; et voici que de toutes les mers du globe, confluait vers l’île d’Angleterre le butin légendaire des corsaires et des pirates anglais. La reine s’en félicitait et s’enrichissait. […] Des centaines, des milliers d’Anglais et d’Anglaises devinrent descorsairs capitalists. » (p.44-45)
 
« Ce furent les Anglais qui, finalement, surclassèrent tous leurs rivaux […] Certes, les grands empires coloniaux d’autres peuples européens continuèrent d’exister : l’Espagne et le Portugal, par exemple, conservèrent d’immenses possessions outre-mer ; mais ils perdirent le contrôle des mers et des voies de communication. » (p.49)
 
« La France, elle, n’a pas suivi le grand élan maritime lié au protestantisme des Huguenots. Par sa tradition spirituelle, elle resta en fin de compte un pays romain et en prenant parti pour la catholicité contre les Huguenots (nuit de la Saint-Barthélemy en 1572 et conversion d’Henry IV au catholicisme), elle choisit par là même la terre contre la mer. Certes, son potentiel maritime restait considérable et aurait pu, même sous Louis XV, tenir tête à celui de l’Angleterre. Mais lorsqu’en 1672, le roi français congédia Colbert, son grand ministre du commerce et de la marine, le choix en faveur de la terre devint irréversible. » (p.50)
 
« Toute transformation historique importante implique le plus souvent une nouvelle perception de l’espace. » (p.52)
 
« La Chute de l’empire romain, l’expansion de l’Islam, les invasions arabes et turques entraînent pour plusieurs siècles un rétrécissement de l’espace et une « continentalisation » de l’Europe. Le recul de la mer, l’absence de flotte, une territorialisation totale, sont caractéristiques du Haut Moyen Age et de son système féodal. Entre 500 et 1100, l’Europe était devenue une masse continentale féodale et agraire où la classe dominante, les seigneurs féodaux, laissaient les choses de l’esprit, et même la lecture et l’écriture, à l’Eglise et au clergé. Des monarques et des héros fameux de cette époque ne savaient ni lire ni écrire. Pour cela, ils avaient leur moine ou leur chapelain. On peut penser que dans un empire maritime, les gouvernants n’auraient guère pu se permettre d’ignorer longtemps l’art de lire et d’écrire, comme ce fut le cas dans un tel complexe purement territorial, terrien, continental. Or, les croisades furent l’occasion, pour les chevaliers et les marchands français, anglais et allemands, de connaître le Proche-Orient. […]
 
Mais cet élargissement de l’espace fut en même temps une mutation culturelle profonde. Partout en Europe, apparaissent de nouvelles formes de vie politique. La France, l’Angleterre, la Sicile, voient naître des administrations centralisées qui annoncent, à bien des égards, l’Etat moderne. L’Italie centrale et septentrionale voit se développer une nouvelle civilisation citadine. Des universités apparaissent, où l’on enseigne une nouvelle science théologique et juridique, jusque-là inconnue, et la redécouverte du droit romain crée une nouvelle science théologique et juridique, jusque-là inconnue, et la redécouverte du droit romain crée une nouvelle catégorie de gens éduqués : les juristes, brisant ainsi le monopole du clergé d’Eglise, propre à la féodalité du Moyen-Age. Dans l’art nouveau, dit gothique, en architecture, dans les arts plastiques et la peinture, un mouvement puissant surmonte l’espace statique de l’ancien art roman et le remplace par un champ de forces dynamiques, véritable espace en mouvement. La voûte gothique est une structure où les éléments et parties s’équilibrent et se soutiennent réciproquement par leur seule pesanteur. Comparé aux masses lourdes et statiques de l’édifice roman, c’est là un sentiment de l’espace entièrement nouveau. » (p.56-57)
 
« Dans le système philosophique de Giordano Bruno, le système solaire dans lequel la planète Terre se déplace autour du soleil n’est qu’un des nombreux systèmes solaires au sein d’un firmament infini. Les expériences scientifiques de Galilée firent de ces spéculations philosophiques une vérité mathématiquement démontrable. Kepler calcula les ellipses des planètes mais frissonna devant l’infinité de ces espaces où les galaxies évoluent sans frontières concevables ni centre. Les théories de Newton proposèrent à toute l’Europe éclairée la nouvelle conception de l’espace. » (p.59)
 
« Tout ordre fondamental est un ordre spatial. Parler de la constitution d’un pays ou d’un continent, c’est parler de son ordre fondamental, de son nomos. Or, l’ordre fondamental, le vrai, l’authentique, repose essentiellement sur certaines limites spatiales, il suppose une délimitation, une dimension, une certaine répartition de la terre. L’acte inaugural de toute grande époque est une appropriation territoriale d’envergure. Tout changement important de la face du monde est inséparable d’une transformation politique, et donc d’une nouvelle répartition de la terre, d’une appropriation territoriale nouvelle. » (p.62-64)
 
« Les luttes intestines, les affrontements fratricides et les guerres civiles sont, on le sait, les plus cruelles de toutes les guerres. » (p.65)
 
« La lutte pour la possession du Nouveau Monde devint une lutte entre la Réforme et la Contre-Réforme, entre le catholicisme mondial des Espagnols et le protestantisme mondiale des Huguenots, des Néerlandais et des Anglais. » (p.68)
 
« Depuis le XVIème siècle, les pays du continent européen avaient arrêté les formes de la guerre terrestre : l’idée fondamentale était que la guerre est une relation d’Etat à Etat. Elle met aux prises, de part et d’autre, la force militaire organisée de l’Etat et les armées s’affrontent en rase campagne. Les adversaires en présence sont les armées : la population civile, non-combattante, reste en dehors des hostilités. Elle n’est pas l’ennemi, et n’est d’ailleurs pas traitée comme tel aussi longtemps qu’elle ne participe pas aux combats. La guerre sur mer, par contre, repose sur l’idée qu’il faut atteindre le commerce et l’économie de l’adversaire. Dès lors, l’ennemi, ce n’est plus seulement l’adversaire en armes, mais tout ressortissant de la nation adverse et même, finalement, tout individu ou Etat neutre qui commerce avec l’ennemi ou entretient des relations économiques avec lui. La guerre terrestre tend à l’affrontement décisif en rase campagne. La guerre maritime n’exclut pas le combat naval, mais ses méthodes privilégiées de la guerre sur mer sont dirigés aussi bien contre les combattants que contre les non-combattants. Un blocus, par exemple, frappe sans diction toute la population du territoire visé : militaires, civils, hommes, femmes, enfants, vieillards. » (p.75)
 
« Dès que l’Angleterre se fut choisi un destin exclusivement maritime, toutes ses relations essentielles avec le reste du monde, et notamment avec les pays du continent européen, furent bouleversées. Tous les critères, toutes les mises en perspectives, toute la logique de la politique anglaise furent dès lors inconciliables avec ceux de tous les autres pays d’Europe. » (p.80)
 
« Après Waterloo qui vit la défaite de Napoléon au terme d’une aventure guerrière de vingt années, commença l’ère de la suprématie totale et incontestée de l’Angleterre. Elle devait traverser tout le XIXème siècle. » (p.81)
 
« Si la guerre de Crimée fut encore menée avec des voiliers, la guerre de Sécession vit apparaître le navire à vapeur cuirassé. Elle inaugura la guerre moderne, industrielle et économique. » (p.83)
 
« Dans un texte de juillet 1904, [l’amiral américain] Mahan évoque une réunification possible de l’Angleterre et des Etats-Unis d’Amérique. A ses yeux, la raison déterminante d’une telle réunification, ce n’est pas la communauté de race, de langue ou de civilisation. […] Ce qui importe, c’est de maintenir la suprématie anglo-saxonne sur les mers du globe et cela n’est possible que sur une base « insulaire » : par le mariage des deux puissances anglo-américaines. Le monde a changé, l’Angleterre est devenue trop exiguë, elle n’est plus « île » au sens où elle l’avait été jusque-là. Les Etats-Unis d’Amérique, en revanche, sont l’île parfaitement adapté à son époque. […] L’Amérique est la « plus grande île », celle à partir de laquelle la maîtrise britannique des mers se perpétuera, sur une échelle plus vaste, sous la forme d’un condominium maritime anglo-américain. » (p.84-85)
 
SCHMITT_Land_and_Sea_MED.jpg« L’apparition de l’avion marqua la conquête d’une troisième dimension après celle de la terre et de la mer. L’homme s’élevait au-dessus de la surface de la terre et des flots et se dotait en même temps d’un moyen de communication entièrement nouveau –et d’une arme non moins nouvelle. Ce fut un nouveau bouleversement des échelles de référence et des critères, et les possibilités de domination humaine sur la nature et les autres hommes devinrent incalculables. » (p.87)
 
« Nous ne vivons que la fin des rapports traditionnels entre la terre et la mer. Mais la peur du nouveau est souvent aussi vive que la peur du vide –même lorsque le nouveau surmonte le vide. Cela explique pourquoi beaucoup ne voient que chaos absurde là où un sens nouveau cherche à imposer son ordre des choses. Certes, l’ancien nomos disparaît, entraînant dans sa chute tout un système de valeurs, de normes et de relations traditionnelles. Mais rien ne dit que ce qui vient soit forcément démesure ou néant étranger à tout nomos : de l’affrontement acharné entre forces anciennes et nouvelles peut éclore une juste mesure, une proportion chargée de sens :
 
Là encore les Dieux sont là qui règnent
 
Grandes sont leurs limites. » (p.89-90)
 
-Carl Schmitt, Terre et Mer. Un point de vue sur l’histoire mondiale, Paris, Éditions du labyrinthe, 1985 (1944 pour la première édition allemande), 121 pages.
 
« Le géocentrisme, avec ses connotations de stabilité et de fermeté, semble comme constitutif de notre vision ordinaire du monde.
 
La mer, par contre, nous apparaît comme l’immensité de l’inconnu ; elle l’image d’une mobilité qu’on ne peut affronter qu’avec des moyens artificiels. Nous marchons en toute tranquillité sur la terre, mais la mer est dangereuse, inhabitable, inhospitalière. Aussi associons-nous volontiers l’idée de mer à tout ce qui est mouvant, flottant, fluctuant, fuyant et fragile. […]
 
En même temps, par l’impression qu’elle nous donne d’un horizon lointain qui se perd dans l’infini, la mer est également symbole de l’espérance, de l’aspiration et de l’attente, à la différence de la terre, ferme, mais lourde, commune et vulgaire. » (p.92)
 
« La conception de l’espace terrien demeure différente de la conception de l’espace maritime, tout comme de l’espace aérien ou sidéral, ces deux derniers présentant de nombreux points communs. L’homme y fait des incursions, par exemple avec les avions, mais n’y réside pas. L’espace maritime et aérien, en effet, n’offre pas les commodités de l’espace terrien, car si les hommes s’y engagent, c’est grâce à la technique, c’est-à-dire grâce à des moyens mobiles dans lesquels la vie est concentrée, inconfortable dans la durée et asservie à des conditions de sécurité précautionneuses et exceptionnelles, à la différence de la terre où l’habitat est en général sédentaire (maison ou appartement) dans le cadre de la plus grande liberté de mouvement. » (p.98)
 
« La mer est en quelque sorte le paradigme des théories de l’état de nature. Ce n’est sans doute pas un hasard si ce genre de théories a vu le jour, avec Hobbes et Locke, dans un Etat thalassocratique, la théorie du contrat social apparaissant par contrecoup comme celle d’un équilibre terrien ou continental. La liberté des mers figure, au moins en principe, l’anarchie, c’est-à-dire le droit du plus fort. » (p.108)
 
« J’ai consacré plusieurs ouvrages, articles et conférences à la décadence irréversible de l’Europe. Il y a cinquante ans, celle-ci était la maîtresse des terres et des mers du globe ; aujourd’hui, depuis qu’elle s’est retirée sur son espace géographique, elle est en peine de se défendre elle-même. L’Europe a perdu sa puissance parce qu’elle ne contrôle plus son espace propre. Je voudrais ajouter, dans cette perspective, que le déclin de l’Europe ira s’accentuant. Marx prévoyait avec raison que le centre de la politique mondiale est dépendant des mers : ce fut d’abord la Méditerranée et, après la découverte de l’Amérique, l’Atlantique. Le Pacifique est en train de prendre le relais, pour peu qu’on veuille prendre en considération l’essor économique des pays riverains de cet océan. […] Or, parmi les cinq continents, l’Europe est le seul à ne pas disposer d’une ouverture ou d’un accès direct à l’Océan Pacifique. » (p.114)
 
« En politique, la lucidité consiste à savoir prévoir le pire, afin de se donner les moyens pour empêcher qu’il arrive. » (p.115)
 
- Julien Freund, « La Thalassopolitique », postface à Carl Schmitt, Terre et Mer. Un point de vue sur l’histoire mondiale, Paris, Éditions du labyrinthe, 1985 (1944 pour la première édition allemande), 121 pages.

mardi, 21 février 2017

Jornadas Schmitt - Teología y secularización

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Jornadas Schmitt - Teología y secularización

Jornadas Actualidad de Carl Schmitt a 30 años de su muerte.
Universidad de Buenos Aires, 18 a 20 de noviembre de 2015.

Panel Teología y secularización
19 de noviembre de 2015.

Borovinsky, Tomás (IIGG/FSOC, UBA)

Schmitt: secularización, crítica y crisis.

Ludueña, Fabián (IIGG/FSOC, UBA)

El problema de la arché. Una arqueología teológica del decisionismo schmittiano.

Naishtat, Francisco (IIGG/FSOC, UBA)

Teología y secularización en Schmitt y Benjamin: las lecturas de Taubes, Agamben y Cohen-Lévinas.

Taub, Emmanuel (IIGG/FSOC, UBA)

Tierra y Mar. La reflexión sobre la cuestión bíblica en Schmitt.


Coordina: Agustín Volco (IIGG/FSOC, UBA).

samedi, 18 février 2017

Jornadas Schmitt - Actualidad de Carl Schmitt

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Jornadas Schmitt - Actualidad de Carl Schmitt

Jornadas Actualidad de Carl Schmitt a 30 años de su muerte.
Universidad de Buenos Aires, 18 a 20 de noviembre de 2015.

Panel Actualidad de Carl Schmitt
18 de noviembre de 2015.

Cortés, Martín (FSOC, UBA)

Schmitt para las izquierdas.


Nosetto, Luciano (IIGG/FSOC, UBA)

Decisionismo y decisión. Un retorno a la sencillez del comienzo.


Raffin, Marcelo (IIGG/FSOC, UBA)

Excepción, nomos y teología política: la recepción agambeniana del pensamiento de Schmitt.


Rossi, Miguel Ángel (IIGG/FSOC, UBA)

Schmitt y la problemática de los valores.


Coordina: Gabriela Rodríguez Rial (IIGG/FSOC, UBA).



Sobre las Jornadas

Comisión académica
Cecilia Abdo Ferez, Ricardo Laleff Ilieff, Luciano Nosetto, Julio Pinto, Gabriela Rodríguez Rial, Miguel Ángel Rossi.

Comisión organizadora
Germán Aguirre, Alejandro Cantisani, Franco Castorina, Fabricio Castro, Diego Fernández Peychaux, Ricardo Tomás Ferreyra, Nicolás Fraile, Octavio Majul Conte, Gonzalo Manzullo, Gonzalo Ricci Cernadas, Javier Vázquez Prieto, Tomás Wieczorek.

Contacto
Correo electrónico: jornadascarlschmitt@gmail.com
Página web: jornadascarlschmitt.wix.com/2015
Facebook fanpage: facebook/jornadascarlschmitt

Organizaron
Seminario Permanente de Pensamiento Político,
Instituto de Investigaciones “Gino Germani”,
Facultad de Ciencias Sociales, UBA.

Invitaron
Maestría en Teoría Política y Social, Facultad de Ciencias Sociales, UBA.
Anacronismo e Irrupción. Revista de Teoría y Filosofía Política Clásica y Moderna.

 

jeudi, 12 janvier 2017

La notion de politique de Carl Schmitt

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La notion de politique de Carl Schmitt

par Karl Peyrade

Ex: http://www.lerougetlenoir.org 

Ex: Publié en 1932, La notion de politique est un des ouvrages les plus connus du juriste catholique allemand Carl Schmitt. A l’origine de ce livre, on trouve une conférence de l’auteur, s’inscrivant dans unCYCLE sur les problèmes de la démocratie, à la Grande École Allemande pour la Politique située à Berlin. La conférence a donné ce texte qui a fait l’objet de nombreux débats au sein de l’intelligentsia allemande. Avant la parution de La notion de politique, les intellectuels allemands assimilaient souvent l’État à la politique. C’est face à ce postulat que Schmitt a entendu réagir.

Selon l’auteur, le concept d’État présuppose le concept de politique. L’État se définit, selon l’acception moderne, comme étant le statut politique d’un peuple organisé légalement sur un territoire donné. Pendant longtemps, les juristes n’ont évoqué que les problématiques liées à la théorie générale de l’État sans se soucier du politique. D’après Max Weber, qui fut le professeur de Carl Schmitt, le pouvoir est un élément caractéristique de la politique. L’Allemagne du XIXe siècle a d’abord placé, l’État au-dessus de la société. Ensuite, la conception libérale a primé en introduisant une dialectique État/société à savoir une opposition entre l’État et la société. Enfin, le début du XXesiècle a accouché de l’État total au sens hégélien c’est-à-dire d’un État compétent dans tous lesDOMAINES. Bien entendu, à l’heure actuelle et depuis la deuxième guerre mondiale, la vision libérale de l’État a repris du galon dans le monde occidental.

L’auteur note que dans de nombreuxDOMAINES, il existe un certain dualisme simplificateur : l’opposition beau/laid en esthétique, l’opposition rentable/non rentable en économie, l’opposition bien/mal en morale etc. En politique, c’est le dualisme ami/ennemi ou union/désunion ou association/dissociation qui est le plus pertinent. L’ennemi est l’étranger générant un conflit non réglable par une norme générale ou un tiers impartial. L’État, en tant que communauté d’intérêt et d’action, va décider si l’ennemi, c’est-à-dire son antithèse, menace son existence.

Le Christ et l’Église catholique à sa suite recommandent d’aimer ses ennemis et de prier pour eux et leur salut. Schmitt rappelle à ce sujet la distinction latine entre inimicus (ennemi personnel) auquel l’Évangile fait référence [1] et hostis (ennemi politique). Pour illustrer son propos, il donne l’exemple suivant :

« Dans la lutte millénaire entre le christianisme et I ’Islam, il ne serait venu à l’idée d’aucun chrétien qu’il fallait, par amour pour les Sarrasins ou pour les Turcs, livrer l’Europe à l’Islam au lieu de la défendre. L’ennemi au sens politique du terme n’implique pas une haine personnelle, et c’est dans la sphère de la vie privée seulement que cela a un sens d’aimer son ennemi, c’est-à-dire son adversaire. »

61S60PfzfrL.jpgCette citation brille par son actualité. Face à l’invasion migratoire et à la place de plus en plusIMPORTANTE que prend la religion mahométane en France, l’Église catholique dans la continuité du Concile Vatican II propose aux chrétiens d’accueillir l’autre sans distinguer l’étranger en tant qu’individu de l’étranger en tant que masse politique. Pourtant, si un chrétien doit aider l’étranger en tant qu’individu lorsque ce dernier lui réclame de l’aide, d’un point de vue politique, l’Église et la sphère étatique doivent se prononcer contre cet afflux considérable d’étrangers qui présente une menace pour le bien commun et l’unité du pays (insécurité culturelle, baisse des salaires, danger pour la foi catholique, violences interethniques etc.). Carl Schmitt le confirme d’un point de vue conceptuel : lorsque l’antagonisme extérieur consistant à distinguer les nationaux des étrangers disparaît, l’État peut perdre son unité politique et l’antagonisme risque alors de se situer à l’intérieur de l’État à travers une guerre civile.

La guerre n’est qu’unINSTRUMENT de la politique. Selon le mot de Clausewitz, « La guerre n’est rien d’autre que la continuation des relations politiques avec l’appoint d’autres moyens [2]. » Même le concept de neutralité découle de l’opposition ami/ennemi car il nécessite l’existence d’un conflit entre amis et ennemis pour qu’une position neutre soit prise. Si la guerre disparaît, l’ennemi et le neutre disparaissent corollairement et, par conséquent, aussi la politique. En effet, un monde sans conflictualité, un monde pacifié est un monde sans distinction ami et ennemi et, par là même, un monde sans politique. La guerre moderne a ceci de spécifique qu’elle ajoute à cette dialectique ami/ennemi un élément moral. Dès lors, l’ennemi n’est plus simplement une catégorie politique, il devient aussi une catégorie morale. En conséquence, l’ennemi étant le mal incarné, il convient de le détruire intégralement par tous les moyens (bombardement des populations civiles, armes atomiques, criminalisation de l’ennemi et fin du statut d’ennemi et de ses droits). Mais la guerre ne peut jamais être religieuse, économique ou morale. Ces motifs peuvent devenir politiques quand ils entraînent la mise en place de la configuration amis et ennemis. La guerre n’est alors que l’actualisation ultime de cette conflictualité.

Qui définit cette opposition entre amis et ennemis ? Celui qui est souverain à savoir celui qui est capable de trancher une situation exceptionnelle, celui qui peut déclencher l’état d’urgence. Cette personne peut être le monarque ou l’État lorsqu’il représente l’unité politique du peuple. Dans le monde moderne, cette décision appartient à l’État. Elle suppose un peuple politiquement uni, prêt à se battre pour son existence et son indépendance en choisissant son propre chef ce qui relève de son indépendance et de sa liberté. Lorsqu’un peuple accepte qu’un tiers ou un étranger lui dicte qui est son ennemi, il cesse d’exister politiquement.

La tâche première de l’État est de pacifier l’intérieur car sinon pas de norme possible. Une communauté n’est politique que si elle est en capacité et en volonté de désigner son ennemi. Cette capacité fonde l’unité politique du groupe en-dessous duquel les entités extérieures sont placées par ce dernier. On retrouve la même idée chez les grecs avec la notion de barbares. Dans la conception libérale de l’économie, chaque agent est libre. Il peut donc décider tout seul des causes pour lesquelles il souhaite agir. Aucune entité collective ne peut rien lui imposer. Dans le monde économique, il est facile d’écarter le gêneur sans user de la violence. On peut le racheter ou le laisser mourir. Il en est de même dans le monde culturel : c’est la norme qui entraîne la mort sociale. Mais en ce qui concerne la politique, des hommes peuvent être obligés de tuer d’autres hommes pour des raisons d’existence.

Le monde est une pluralité politique. En effet, une unité politique définit un ennemi qui constitue alors lui aussi une unité politique. Il n’existe pas d’État universel. Le jour où il n’y aurait plus d’ennemis sur terre, il n’y aurait plus non plus de politique et d’État. Sans État, il ne reste plus que l’économie et la technique. L’auteur précise :

« Le concept d’humanité est un instrument idéologique particulièrement utile aux expansions impérialistes, il est un véhicule spécifique de l’impérialisme économique. On peut appliquer à ce cas, avec la modification qui s’impose, un mot de Proudhon : " Qui dit humanité veut tromper ". »

Un ennemi de cette humanité n’est donc plus humain. Il devient alors possible de l’exterminer totalement. La notion d’humanité est apparue au XIXe siècle pour contrer l’ordre ancien et lui substituer des concepts individualistes, comme le droit naturel, applicables à tout le genre humain. La Société des Nations de 1919 n’est ni universelle, ni internationale. L’adjectif international, se définissant comme la négation des barrières étatiques, est à distinguer de l’adjectif interétatique qui suppose des relations entre États sans nier leur délimitation. La Troisième Internationale a une connotation internationale. La Société des Nations serait plutôt une alliance de nations contre d’autres.

Le libéralisme se fonde sur une vision anthropologique optimiste de l’homme : l’homme est bon et sa raison produit la société qui est à opposer à l’État. Pour Schmitt, les vrais penseurs politiques comme Taine, Machiavel, Fichte, Hegel, De Maistre ou Donoso Cortes adoptent une position inverse. Les hommes sont par nature mauvais, l’État les transcende. Hegel définissait le bourgeois comme « cet homme qui refuse de quitter sa sphère privée non-politique, protégé du risque, et qui, établi dans la propriété et dans la justice qui régit la propriété privée, se comporte en individu face au tout, qui trouve une compensation à sa nullité politique dans les fruits de la paix et du négoce, qui la trouve surtout dans la sécurité totale de cette jouissance, qui prétend par conséquent demeuré dispensé de courage et exempt du danger de mort violente ». Dans un monde où les hommes sont bons, il n’est plus besoin de prêtres pour guérir du péché, ni de politiciens pour combattre l’ennemi. La société libérale s’en remet au Droit comme norme supérieure ce qui est illusoire car le Droit n’est que le produit de ceux qui l’établissent et l’appliquent.

L’essence du libéralisme est antipolitique. Il existe une critique libérale de la politique mais pas de vision libérale de la politique. Le libéralisme suppose un abaissement du rôle de l’État le limitant à concilier les libertés individuelles. Il substitue à l’État et à la politique la morale et l’économie, l’esprit et les affaires, la culture et la richesse. Cette idéologie commence et s’arrête à l’individu. Rien ne peut contraindre un individu à se battre pour le groupe ou pour l’État. Dans l’optique libérale, l’État n’a pour unique but que de permettre l’accomplissement de la liberté humaine mais certainement pas de la contraindre. La lutte politique devient une concurrence économique (les affaires) et une joute verbale (l’esprit). La fixité de la paix et de la guerre est remplacée par l’éternel concurrence des capitaux et des égos. L’État devient la Société vue comme le reflet de l’Humanité. La société correspond à une unité technique et économique d’un système uniforme de production et de communication.

Les libéraux se sont indéniablement trompés. Le monde n’est pas rationalisable, réductible à une formule mathématique et le commerce n’a pas permis la paix. La science et la technique n’ont pas remplacé la violence et le rapport de forces. Hegel avait placé l’État au-dessus de la société. C’est désormais la société qui domine l’État. L’économique et la technique ont pris l’ascendant sur toutes les autres sphères mais rien ne pourra jamais définitivement annihiler le politique.

Carl Schmitt conclut son ouvrage sur le constat suivant :

« Nous sommes à même de percer aujourd’hui le brouillard des noms et des mots qui alimentent la machinerie psychotechnique servant à suggestionner les masses. Nous connaissons jusqu’à la loi secrète de ce vocabulaire et nous savons qu’aujourd’hui c’est toujours au nom de la paix qu’est menée la guerre la plus effroyable, que l’oppression la plus terrible s’exerce au nom de la liberté et l’inhumanité la plus atroce au nom de l’humanité […] Nous reconnaissons le pluralisme de la vie de l’esprit et nous savons que le secteur dominant de notre existence spirituelle ne peut pas être unDOMAINE neutre […] Celui qui ne se connaît d’autre ennemi que la mort […] est plus proche de la mort que de la vie […] Car la vie n’affronte pas la mort, ni l’esprit le néant de l’esprit. L’esprit lutte contre l’esprit et la vie contre la vie, et c’est de la vertu d’un savoir intègre que naît l’ordre des choses humaines. »

A travers cet ouvrage court, exigeant et précis, Carl Schmitt, dans son style habituel, très éloigné de la prose juridique, donne des clés de lecture intéressantes du monde moderne. Sa vision de la politique est utile pour comprendre à quel point notre monde est dépolitisé. De nos jours, les cartes sont brouillées par les dirigeants politiques. L’indistinction généralisée règne. On ne distingue plus l’ami de l’ennemi, le citoyen du migrant, l’homme de la femme, l’homme de l’animal, le catholique du musulman ou du juif ou encore le bien du mal. Face ce délitement de l’État et de la société, lire Carl Schmitt permet de mieux comprendre les dessous conceptuels de l’effondrement du monde contemporain.

Karl Peyrade.
 

[1Math. 5, 44

[2De la guerre (1955)

jeudi, 22 décembre 2016

Donoso Cortes, Carl Schmitt, Julius Evola

Donoso Cortes, Carl Schmitt, Julius Evola

DC-CSn40.jpgDe nos jours, la « discussion » est devenue une marchandise, le produit vendable des nouvelles par câble et des revues d’opinion; il n’y a plus même le prétexte d’une « recherche de la vérité ».

Je ne crois pas que la monographie de Carl Schmitt sur Donoso Cortés, mentionnée par Julius Evola, ait été traduite. Cependant, le dernier chapitre de la Théologie politique de Schmitt est intitulé Sur la philosophie contrerévolutionnaire de l’État (de Maistre, Bonald, Donoso Cortes), de sorte qu’il peut servir de résumé à la compréhension par Schmitt de Donoso.

Mais d’abord, il faut signaler une anomalie intéressante. Le Schmitt catholique, ainsi que les trois contre-révolutionnaires catholiques, n’ont eut absolument aucun impact sur l’église contemporaine. Leurs idées sur la Tradition, l’autorité et l’opposition au monde libéral moderne ont été rejetées par l’église modernisante Vatican II. Alors, pourquoi l’Evola anti-chrétien était-il si enchantée par la figure de Donoso Cortés? Comme l’indique Evola dans sa revue de la monographie de Schmitt sur Thomas Hobbes, ce qui compte, c’est la « manifestation d’un principe et d’un ordre supérieur » et la mise en place d’un « type d’organisation véritablement spirituelle et hiérarchique traditionnelle ». Puisqu’il n’y a plus de soutien institutionnel à de telles idées, il incombe aux rares de les comprendre et de les développer. 

Comme nous l’avons vu, Evola rejette la revendication de Hobbes du contrat social comme la base de l’état du Leviathan, car cela pourrait servir à lui fournir un vernis de légitimité. C’est plutôt la dévolution de l’Etat traditionnel, résultat de la perte du sens d’une vérité transcendante, tout en conservant son autorité, qui donne notre situation. Un tel Etat, laissé à ses propres moyens sous l’influence de « courants plus profonds, toujours capables de s’infiltrer là où elles ne trouvent pas la voie barrée par la présence de principes authentiques et d’une vérité ferme et durable », va continuer de permettre la « dissolution individualiste de l’Etat ». Alors, qu’est-ce que Donoso nous raconte de ce choc libéral et de son contraire?

L’idéal libéral est la « libre enquête », le « marché des idées », la « conversation éternelle ». Schmitt écrit:

Les philosophes politiques catholiques comme de Maistre, Bonald et Donoso […] auraient considéré la conversation éternelle comme le produit d’un fantasme horriblement comique, car ce qui caractérisait leur philosophie politique contre-révolutionnaire, c’était la reconnaissance que leur époque nécessitait des décisions.

Car la Tradition de Bonald offrait la seule possibilité d’acquérir ce que l’homme était capable d’accepter métaphysiquement, parce que l’intellect individuel était considéré comme trop faible et misérable pour pouvoir reconnaître la vérité par elle-même.

Les antithèses et les distinctions que Bonald a tant aimé contiennent en vérité des disjonctions morales … De telles disjonctions morales représentent des contrastes entre le bien et le mal, Dieu et le diable; entre eux existe un « les deux/ou » dans le sens d’une lutte de vie ou de mort qui ne reconnaît pas une synthèse et un « tiers supérieur ».

Nous voyons que les contre-révolutionnaires rejettent l’idéal libéral que l’opinion de chaque homme compte. « L’erreur n’a pas de droits », et peu d’hommes sont capables de surmonter l’erreur intellectuelle. Donoso était encore plus emphatique. Selon Schmitt, Donoso Cortés avait un

mépris pour l’homme ne connaissait pas de limites: la raison aveugle de l’homme, sa faiblesse et la ridicule vitalité de ses désirs charnels lui paraissaient si pitoyables que toutes les paroles de tout langage humain ne suffisent pas à exprimer toute la bassesse de cette créature. […] La stupidité des masses devait être aussi évidente pour lui que la vanité idiote de leurs chefs.

En somme, Donoso décrit les hommes comme étant à l’étape qu’Evola appelait la première[1] qui est définie « par des forces, des idées et des objets en dehors de lui-même. Manquant de volonté, l’homme de la première étape ne peut rien faire sans être dirigé par des forces extérieures ». De même, comme Evola, Donoso méprise la société bourgeoise. Schmitt écrit:

Selon Donoso Cortés, il était caractéristique du libéralisme bourgeois de ne pas décider dans cette bataille mais plutôt d’entamer une discussion. Il définit directement la bourgeoisie comme une « classe de discussion ». Cette définition contient la classe caractéristique de vouloir éluder la décision. Une classe qui déplace toute l’activité politique sur le plan de la conversation dans la presse et au parlement n’est pas fait pour le conflit social.

La futilité du débat

Voici le cœur de la question. La classe bourgeoise, bien que nominalement au pouvoir, n’a aucune compréhension, ni même croyance en aucun principe d’ordre transcendant. Par conséquent, il n’y a plus de convictions. Sans aucune compréhension des vrais principes, il n’y a pas d’argument contre les forces destructrices du désordre. Quand le contraire de la vérité est mis à égalité avec la vérité, il ne peut y avoir de résolution. Le débat se poursuivra sans résolution, comme quelque spectacle des Highlanders, mais sans les éléments héroïques. Au lieu d’un « les deux/ou», il y a maintenant un « et/ou ». Les masses elles-mêmes n’ont aucun moyen de résoudre le problème, et donc se considèrent libres de choisir une alternative basée sur rien d’autre que leurs caprices. Ainsi, le choix du désordre est tout aussi valable que le choix de l’ordre.

Si un enfant touche un poêle chaud, il reçoit immédiatement des commentaires négatifs et apprend à ne jamais le faire à nouveau. Dans le cours de sa vie, un homme fera beaucoup d’erreurs. Souvent, les conséquences ne sont pas clairement connues jusqu’à des années plus tard, lorsque les enchevêtrements qu’il a créés deviennent difficiles à échapper. Sur le plan sociétal, les effets négatifs ne seront pas remarqués pendant de nombreuses années, dépassant souvent même la durée de la vie d’un homme. C’est pourquoi ils persistent, sous le regard perplexe de ceux qui sont encore capables de voir les vraies causes et conséquences des événements.

Décision 

L’Etat libéral et bourgeois n’a pas la volonté de prendre une décision. Schmitt explique:

Donoso Cortés a considéré la discussion éternelle comme une méthode de contournement de la responsabilité et d’attribution à la liberté d’expression et de la presse une importance excessive qui en dernière analyse permet à la décision d’être évitée. Tout comme le libéralisme discute et négocie tous les détails politiques, il veut aussi dissoudre la vérité métaphysique dans une discussion. L’essence du libéralisme est la négociation, une demi-mesure prudente, dans l’espoir que le conflit définitif, la bataille sanglante décisive, puisse se transformer en débat parlementaire et permettre que la décision soit suspendue pour toujours dans une discussion éternelle.

DC-buste.jpgNous voyons, cependant, que la négociation ne bouge que dans une seule direction. Par exemple, supposons que j’offre 50 $ pour un produit et que le vendeur demande 100 $. Nous négocions pour 75 $. Le vendeur connaît alors ma limite. Donc la prochaine fois que nous négocions, nous commençons à 75 $ et il exige 125 $. Si, par indécision, ou si je manque de volonté pour tenir ferme, vous pouvez voir que le prix va continuer à augmenter. Ainsi, les conflits sociaux continuent d’être résolus dans un seul sens, malgré les intentions des conservateurs de maintenir le statu quo, et, en tout cas, continue à « évoluer » dans la même direction.

Le contraire de la discussion est la décision. Dans une société traditionnelle, la décision finale était prise par le grand prêtre ou le roi. À ce moment-là, la décision était sensiblement définitive et la discussion prenait fin. Dans la sphère religieuse, l’autorité spirituelle est infaillible; dans le domaine politique, le Roi établit la loi. Dans cette optique, le conflit ne peut pas être négocié et doit être traité de façon plus primitive. Cela a toujours été reconnu. Par exemple, Dante a reconnu le duel comme l’arbitrage ultime. Joseph de Maistre louait le bourreau comme la force cachée derrière l’ordre. C’est pourquoi les révolutionnaires s’opposent toujours à la peine de mort, du moins jusqu’à ce qu’ils acquièrent eux-mêmes le pouvoir.

Pour Donoso, qui vivait à une époque où les rois ne détenaient plus le pouvoir que dans un sens nominal, la solution était un dictateur ou un « homme de destin ». C’est la conclusion logique. C’est un pas en arrière, dans la perspective de la contre-révolution, car c’est encore l’autorité sans vérité ni légitimité. Tout en ne rejetant pas cette notion, pour Evola, ce n’est

que le stade où l’autorité suffit et la vérité est superflue; où les mythes, et non les vrais principes, sont le meilleur instrument pour saisir et organiser les forces collectives; dans lequel le miracle d’une personnalité exceptionnelle, d’un « homme de destin » saturé du « droit divin », et non pas un pur « droit divin », fonde et légitime la souveraineté et le commandement et confère un caractère transcendant à l’idée de l’État.

En fin de compte, cette étape doit elle-même être surpassée: nous entrerons dans une nouvelle phase dans laquelle le Léviathan, pour ainsi dire, deviendra le corps formé pour rendre possible l’incarnation et la manifestation d’un principe et d’un ordre supérieur: avec cela, l’aspect collectiviste et irrationnel du principe du totalitarisme sera surpassé et mettra en œuvre de nouveau un type d’organisation vraiment spirituelle et traditionnelle hiérarchique.

Traduction de l’anglais, même titre, de Cologero Salvo sur Gornahoor (http://www.gornahoor.net/?p=4499) daté du 19 juillet 2012. Ce texte est pertinent en ce qu’il traite des auteurs principaux d’une frange catholique de la contre-révolution/révolution conservatrice. Ces auteurs seront repris individuellement sur ce site dans le future proche.

[1] À ce sujet : http://www.gornahoor.net/?p=639

lundi, 05 décembre 2016

Carlo Galli - Il nomos della terra di Carl Schmitt

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Carlo Galli - Il nomos della terra di Carl Schmitt

jeudi, 01 décembre 2016

CARL SCHMITT AND POLITICAL THEOLOGY WITH RICHARD SUBWORTH

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CARL SCHMITT AND POLITICAL THEOLOGY WITH RICHARD SUBWORTH

lundi, 21 novembre 2016

Un nazionalismo internazionale per una geopolitica multipolare

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Un nazionalismo internazionale per una geopolitica multipolare

Di Camilla Scarpa
Ex: http://www.omniasuntcommunia.eu
 
Questo saggio mira ad analizzare gli elementi che favoriscono l’ascesa di una grande potenza e le relazioni di quest’ultima con i cambiamenti in atto sullo scacchiere internazionale, cambiamenti che assecondano il programma politico ed economico della potenza egemone per gli altri stati. D’altro canto, mira anche a comprendere se il gruppo di stati definiti BRICS, e soprattutto il Brasile, ha qualche chance di cambiare, seppur parzialmente, il nucleo dinamico del sistema politico e dell’economia, tenendo conto della crisi internazionale che ha colpito gli stati industrializzati. In conclusione, ammettendo l’esistenza di questa possibilità, il saggio mira a comprendere quali strumenti possano contribuire alla suddetta trasformazione sistemica, e a controbilanciare la tradizionale supremazia dell’emisfero settentrionale.

Introduzione: teoria e prassi della nuova geopolitica multipolare

Benché la concreta, razionale possibilità di un equilibrio geopolitico differente da quello unipolare (risultante dalla vittoria del blocco Occidentale su quello Orientale, o viceversa) e da quello bipolare (basato sull’equilibrio tra il blocco Orientale e quello Occidentale, che si è poi in qualche modo concretizzato nella fase della guerra fredda) sia stata già tratteggiata da Carl Schmitt ne “Il nuovo nomos della terra”1, e perfino accennata da Kant alla fine del ‘7002 in chiave cosmopolitica, solo negli ultimi anni, in seguito al crollo del muro di Berlino e alla fine della fase “bipolare”, assistiamo al germogliare, seppur spesso faticoso, di quelli che sono le prime, embrionali manifestazioni della geopolitica multipolare.

Una parentesi economica: il liberismo come motore di una nuova geopolitica

Significativamente, ma anche un po’ paradossalmente, uno dei fattori che ha incoraggiato e accelerato l’emersione di autonomi blocchi geopolitici è stato il liberismo economico di matrice occidentale e soprattutto nordamericana: infatti, dando per scontati quei blocchi la cui omogeneità storica, filosofica, culturale e politica è secolare se non millenaria, quali l’Europa, il Nord-America e il blocco sovietico, la cui omogeneità peraltro ha storie e vicissitudini diverse (l’omogeneità culturale americana, ad esempio, è “indotta”, e storicamente recente, quella europea è culturalmente antica ma politicamente sempre più fragile, quella sovietica è al tempo stesso storica e rafforzata dalla federazione politica che era l’URSS, poi soggetta a uno sbandamento momentaneo e ora in pieno “rinascimento”), i “nuovi blocchi” frequentemente coincidono con i cd. “paesi in via di sviluppo”, in crescita economica pressoché verticale: l’America centro-meridionale (riunita nel 2008 nell’UNASUR e, commercialmente, nel MERCOSUR), il blocco che gravita intorno all’India, il Giappone, quello africano (riunito nell’Unione Africana dal 2002, che tra l’altro si è espressa di recente in modo giustificatamente negativo rispetto ai sistemi di giustizia penale internazionale sostanzialmente filo-occidentali), e il polo cinese, se, come pare ragionevole, lo si considera autonomo rispetto alla Russia in seguito alle divergenze del periodo post-staliniano, e nonostante le fasi di normalizzazione degli anni ’80 e dei nostri giorni.

Schmitt e D’Ors: grandi spazi, geopolitica e geodieretica

I requisiti che Carl Schmitt individuava per i “grandi spazi indipendenti” erano – e tuttora sono, nell’esperienza pratica – la loro delimitazione razionale e la loro omogeneità interna.

L’aspetto del pensiero schmittiano incentrato sulla teoria dei “Grandi spazi” (peraltro considerata da alcuni alla base della teoria nazista del Lebensraum) sarà poi sviluppato, con una certa creatività e seppur con una fondamentale dicotomia interpretativa riguardante il ruolo da attribuire allo Stato, da uno dei suoi discepoli, Alvaro d’Ors, in un’opera significativamente intitolata “Diritto e senso comune”3. D’Ors ha addirittura coniato il termine “geodieretica” per indicare la semplice ripartizione della terra tra comunità, contrapposta alla geopolitica, che presuppone l’esistenza dell’istituzione-stato. Per D’Ors “la separazione di territori è alcunché di naturale, mentre non lo è il progetto di un ordine mondiale come se tutta la terra fosse un unico territorio sotto il dominio di un solo popolo. […] Questi “grandi spazi”, tra i quali può dividersi il mondo, sono determinati da ragioni geografiche e geopolitiche, e costituiscono raggruppamenti i quali non sono comunità propriamente dette né gruppi di natura societaria, in quanto non dipendono da una volontà contrattuale, ma da condizionamenti fattuali difficilmente eludibili.”.

I grandi spazi, secondo lo stesso autore, possono accordarsi per il mantenimento della pace, ma sono per loro natura avversari, perché hanno l’intrinseca tendenza ad espandersi, a danno gli uni degli altri. Al contrario, tra le comunità che compongono i larghi spazi sono possibili scambi di relazioni sociali.

Profili giuridici dei rapporti reciproci tra grandi spazi: l’annessione

Questa naturale tendenza ad espandersi, peraltro già propria dei tradizionali stati nazionali, ha come sua altrettanto naturale conseguenza l’annessione di territori appartenenti ad altri stati (nel passato e ancora oggi) e ad altri blocchi (nel futuro?).

L’annessione, nel diritto internazionale, è uno dei modi d’acquisto della sovranità territoriale, che peraltro risponde al principio di effettività “ex facto oritur jus”, quindi ribadisce la priorità cronologica e logica del fatto della conquista di un territorio e della conseguente espressione piena del potere di governo sul territorio conquistato rispetto alla sua disciplina giuridica, con buona pace dei giuristi che pensano di prescindere totalmente dalla dimensione fattuale politico-militare. Ne è un esempio paradigmatico il caso dell’Alsazia-Lorena, territorio storicamente conteso tra Germania e Francia che G. K. Chesterton4 erige ad esempio di una politica di indiscriminate annessioni che ha preso piede a cavallo tra ‘800 e ‘900, e che avrebbe dovuto essere repressa in modo esemplare, sì da costituire un monito per tutti gli attori internazionali.

Tale politica, propria non solo della Germania ma di tutte le grandi potenze, ispirate da un “nuovo” imperialismo non solo politico ma anche e soprattutto culturale, è tanto più perniciosa, secondo l’autore, quanto più cerca giustificazioni ex post per le sue conquiste, nel caso specifico attraverso la presenza di una nutrita – e opportunamente gonfiata e ingigantita – minoranza di tedescofoni sui territori in questione.

G. K. Chesterton e una nuova forma di imperialismo…

Poco importa che l’auspicio concreto di Chesterton, ossia la pronta restituzione dei territori alla Francia (pretesa con forza da Clemenceau) si sia poi realizzato, dal momento che le grandi potenze in questione non hanno affatto colto l’occasione per imparare la lezione, e un’altra questione di minoranze etnico-linguistiche, quella dei Sudeti, ha acceso la miccia della II guerra mondiale.

Questo imperialismo, che era un sintomo “nuovo” secondo Chesterton all’epoca della I guerra mondiale, per i contemporanei è assai “vecchio”, e non ha fatto che peggiorare nell’ultimo secolo, facendosi sempre più onnicomprensivo e totale.

L’obiettivo di questo mio intervento è, quindi, quello di segnalare alcuni spunti di riflessione alquanto moderni nell’opera di Chesterton, che precedono di quasi un secolo un certo approccio politico-ideologico neo-nazionalista che oggi pare rivoluzionario almeno quanto un secolo fa lo sembrava l’approccio internazionalistico, non fosse altro che perché è in controtendenza rispetto all’approccio degli ultimi decenni.

Il punto più significativo, a parer mio, è quello che riguarda l’imperialismo culturale e la differenza tra multipolarismo e globalizzazione. Chesterton, nel suo primo romanzo, “Il Napoleone di Notting Hill”5, fa dire al fiero ex primo ministro del Nicaragua, in esilio a Londra:

«E’ questo che denuncio del vostro cosmopolitismo. Quando dite di volere l’unione di tutti i popoli, in realtà volete che tutti i popoli si uniscano per apprendere ciò che il vostro popolo sa fare”. A questa sintesi perfetta del concetto di imperialismo culturale, l’inglese indottrinato, ma non privo di intelletto, Barker, risponde che l’Inghilterra si è disfatta delle superstizioni, e che “La superstizione della grande nazionalità è negativa, ma la superstizione della piccola nazionalità è peggiore. La superstizione di venerare il proprio paese è negativa, ma la superstizione di riverire il paese di qualcun altro è peggiore. […]

La superstizione della monarchia è negativa, ma la superstizione della democrazia è la peggiore di tutte.»6

riaffermando così la superiorità della propria nazione sulle altre. E un simile atteggiamento, che probabilmente si ispira agli avvenimenti della guerra anglo-boera, non può non ricordarci oggi la pretesa statunitense di “Esportare la libertà”, per usare una formula di Luciano Canfora, e le conseguenti, disastrose imprese in Medio-Oriente e in Somalia degli anni ’90 e 2000.

L’atteggiamento direttamente speculare a quello di Barker è però altrettanto condannabile: in “L’irritante internazionale” Chesterton condanna recisamente il “buonismo” sotteso a certe posizioni umanitaristiche pacifiste, che tendono a passare sotto silenzio “i peccati” tanto delle grandi potenze quanto di quelli che, di volta in volta, sono “gli stranieri”, piuttosto che ad essere trasparenti sugli errori di tutti gli stati. E anche questo tipo di posizioni, che paiono inneggiare al “mito del buon selvaggio”, non manca di corrispondenze nella politica contemporanea, soprattutto di sinistra, degli ultimi vent’anni.

La conclusione, solo apparentemente paradossale, è che sostanzialmente l’imperialismo culturale ha arrecato più danni del nazionalismo più ottuso alle relazioni internazionali pacifiche: lo straniero, nella nostra prospettiva distorta, ha diritto di escluderci dalla sua universalità, ma non ha diritto di includerci nelle sue generalizzazioni, non più di quanto abbia diritto di invaderci o di conquistarci, e anzi, la manifestazione del pensiero che si concretizza in un’invasione è, qui davvero paradossalmente, quella che trova più facilmente giustificazione, ideologica e politica, se non addirittura giuridica.

A una certa parte politica risulta infatti quasi più facile giustificare “lo zelota” (nel senso biblico ma anche in quello di Toynbee7), l’ultraortodosso di qualsiasi fede o partito, che muore per difendere il proprio ideale, piuttosto che “il fariseo” che media, giunge a un compromesso, apre la mente all’altro. La fazione opposta, al contrario, inneggia a colui che dimentica completamente le proprie radici, aderendo di volta in volta a quelle dell’altro senza spirito critico e discernimento.

… e la reazione al nuovo imperialismo: un nazionalismo internazionale

La prospettiva suggerita da Chesterton per superare questo impasse è quindi quella di un “nazionalismo internazionale”, piuttosto che quella di un internazionalismo nazionale fallito negli anni ’20 del ‘900 così com’è “neutralizzato” nella sostanza oggi, nonostante il proliferare delle ONG e delle teorie sul loro ruolo nella formazione di una presunta “società civile internazionale” di alcuni filosofi e giuristi (pur blasonati e per altri versi interessanti)8.

Fermo restando che una simile formula, prima di essere ratificata, va riempita di contenuti “costruttivi”, oltre che “distruttivi” – nel senso dialettico socratico dei termini, s’intende -, pare che questa prospettiva possa anticipare quella, contemporanea, condivisa da un vasto movimento d’opinione che va dalle opere recenti di Aleksandr Dugin a quelle di una certa “Nuova destra” francese quale quella di Alain de Benoist9, ma non dovrebbe esser poi troppo distante nemmeno da una certa scuola della sinistra (neo)gramsciana, com’è reinterpretata e divulgata in Italia da Diego Fusaro10.

Il nazionalismo internazionale e un suo corollario, la teoria delle piccole patrie

E anche quello che è uno dei fili rossi del “Napoleone” chestertoniano, nonché una sorta di corollario della suddetta riflessione critica sull’internazionalismo “coatto” (cioè su quella che oggi chiamiamo globalizzazione), merita qualche considerazione proprio in quanto costituisce, negli ultimi vent’anni, un argomento di studio politicamente trasversale: mi riferisco alla cosiddetta “teoria delle piccole patrie”, cara ad Hilaire Belloc, l’amico di Chesterton a cui, non a caso, è dedicato il “Napoleone”.

A questo filone – che talora sconfina nel localismo più particolaristico, malgrado o per volontà degli stessi autori – si rifanno infatti espressamente tanto autori di scuole neomarxiste (soprattutto quella barese), come Franco Cassano11 , quanto intellettuali a vario titolo di destra, quali Marcello Veneziani12 e Pietrangelo Buttafuoco13.

Questo sentimento, non dissimile da quello dell’Europa medievale e soprattutto dell’Italia comunale, si è rinfocolato dopo l’ondata di globalizzazione degli ultimi decenni, e trova un suo spazio anche nell’ordinamento giuridico: nel suo risvolto “unitario”, con il principio di sussidiarietà14, soprattutto verticale (codificato nella nostra Costituzione all’art. 118, oltre che nei trattati europei), e in quello “disgregante” con il rinnovarsi delle pretese secessionistiche, che vorrebbero spesso elevarsi a diritti, non solo in Italia ma anche all’estero (p.e. Catalogna, Scozia, Quebec…).

Non a caso, si noti, Gianfranco Miglio, nel lontano 1972 curava un’edizione delle “Categorie del politico” di Schmitt15, seppur giungendo a conclusioni diverse riguardo al destino dello Stato moderno: Miglio, infatti, riteneva che lo Stato nazionale tradizionalmente inteso fosse al capolinea, e con il crollo del muro di Berlino e la fine dello jus publicum europaeum si entrasse in una fase di transizione al termine della quale si sarebbero realizzati equilibri politici diversi, incentrati su forme diverse di comunità “neofederali”.

A prescindere dall’assetto finale delle comunità di Miglio, simile a quello medievale, e soprattutto a prescindere dalle interpretazioni e dalle derive banalizzanti che ne hanno dato alcune forze politiche, ciò che qui preme sottolineare è, ancora una volta, il nesso tra “l’infinitamente piccolo” (le piccole patrie), e “l’infinitamente grande” (il nazionalismo).

Conclusione: multipolarismo vs. globalizzazione, ritorno al futuro?

Il multipolarismo, comunque lo declinino i suoi fautori, in questo dovrebbe quindi differire dalla globalizzazione che lo ha preceduto: non pretendere che il singolo recida le sue radici per diventare immediatamente “cittadino del mondo”, ma piuttosto suggerire che lo sia solo mediatamente, attraverso la cittadinanza – o meglio, l’appartenenza – della sua nazione o del suo blocco, e la valorizzazione di tradizioni culturali anche regionali e locali.

In questo senso, e solo in questo senso, possono definirsi “conservatrici” o, più esattamente, “tradizionaliste”, le posizioni di autori come Dugin16; e non è un caso, nemmeno questa volta, che negli ultimi trent’anni sia ricomparsa qui e là, tanto come argomento di studi storici17 quanto come ideale politico di riferimento, la formula, solo apparentemente ossimorica e provocatoria, della “rivoluzione conservatrice”.

1 “Der neue Nomos der Erde”, è un (pas)saggio che si ritrova in “Staat, Grossraum, Nomos”, raccolta dei lavori di un cinquantennio di Carl Schmitt, Duncker & Humblot, Berlin, 1995.

2 In “Per la pace perpetua”, Feltrinelli, 2013 (prima ed. 1795).

3 Alvaro d’Ors, “Derecho y sentido comun”, Madrid, 2001.

4 “Germania e Alsazia-Lorena: come evitare l’annessione”, G. K. Chesterton, 1918, da “The North American Review”.

5 “Il Napoleone di Notting Hill”, G. K. Chesterton, 1904, ora pubblicato da Lindau.

6 Nell’Inghilterra quasi distopica del romanzo, infatti, il re è scelto a caso, perché un regime dispotico privo di illusioni “non è la degenerazione ma il compimento più perfetto della democrazia”.

7 Per Arnold J. Toynbee lo zelotismo (contrapposto all’erodianesimo) è l’atteggiamento di colui che, di fronte a un rapporto (culturale) sfavorevole, temendo di uscire sconfitto e umiliato da un tentativo di imitazione, rifluisce su una difesa arcaica e chiusa della propria identità.

8 Mi riferisco a Toni Negri e Michael Hardt, nel loro ormai celebre “Impero”, Rizzoli, 2002: le ONG avrebbero un ruolo nella formazione di un’universale comunità di tipo etico, che costituirebbe la base, il livello più basso della struttura imperiale teorizzata dagli autori.

9 cfr. ad esempio “Verso un nuovo Nomos della terra”, qui: http://www.centrostudilaruna.it/verso-unnuovo-nomos-della-terra.html

10 Diego Fusaro, “Antonio Gramsci”, Feltrinelli, 2015: (p. 126) “Il marxismo eterodosso di Gramsci valorizza, con lo stato, anche la dimensione nazionale. Come è stato suggerito, i Quaderni si reggono sull’idea che si debba partire dal nazionale per giungere al sovranazionale.

L’emancipazione universale del genere umano deve essere l’esito di un processo che trova nella realtà nazionale il proprio punto di avvio e che, da lì, gradualmente si espande fino a farsi cosmopolitico: “Lo sviluppo è verso l’internazionalismo, ma il punto di partenza è “nazionale”, ed è da questo punto di partenza che occorre prendere le mosse.” (Q. XIV, 68, 1729).

E, citando Gide: (p.127) “Si serve meglio l’interesse generale quanto più si è particolari: il modo per essere cosmopoliti, in concreto, consiste nel prendersi cura della massa nazionale-popolare di cui si è parte.”.

11 Franco Cassano, “Il pensiero meridiano”, Laterza, 2007: (p. VIII) “[…] Il sud non è un non-ancora, non esiste solo nella prospettiva di diventare altro, di fuggire inorridito da sé per imitare il nord venti o cent’anni dopo, e quindi probabilmente mai.”, e ancora: (p. 7) “Un pensiero del Sud […] significa non pensare più il sud o i sud come periferia sperduta e anonima dell’impero, luoghi dove ancora non è successo niente e dove si replica tardi e male ciò che celebra le sue prime altrove.”

12 Marcello Veneziani, “Sud”, Mondadori, 2007, che però, quasi facendo autocritica, chiosa: “Un conto è amare il genus loci, un conto è servire le pro loco, a costo della verità”.

13 Pietrangelo Buttafuoco affronta il tema con la consueta ironia in “Buttanissima Sicilia”, Bompiani, 2014, ma già lo adombrava nel romanzo “Le uova del drago”, Mondadori, 2005.

14 Il principio di sussidiarietà nasce nella dottrina sociale della Chiesa cattolica, anche se le sue radici possono risalire ad Althusius. La sua prima menzione viene segnalata nell’enciclica “Rerum novarum”, e poi il concetto trova consacrazione definitiva nella “Quadragesimo anno”, cfr. ex multis F. Pizzolato, “Sussidiarietà, autonomia, federalismo”, in “Come pensare il federalismo?”, Polimetrica, 2010, e F. Viola, “Luci ed ombre del principio di sussidiarietà”, il Mulino, 2009.

15 “Le categorie del politico: saggi di teoria politica”, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, 1972.

16 In “The fourth political theory”, Dugin opera un’analisi particolareggiata su ciò che è tradizionalismo e ciò che è conservatorismo.

17 De Benoist, ad esempio, scrisse su Moeller Van den Bruck.

jeudi, 03 novembre 2016

Carl Schmitt is Right: Liberal Nations Have Open Borders Because They Have No Concept of the Political

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Carl Schmitt is Right:
Liberal Nations Have Open Borders Because They Have No Concept of the Political

Before World War II liberal rights were understood among Western states in a libertarian and ethno-nationalistic way. Freedom of association, for example, was understood to include the right to refuse to associate with certain members of certain ethnic groups, even the right to discriminate in employment practices. This racial liberalism was still institutionalized right up until the 1960s. The settler nations of Australia, Canada, United States, and New Zealand enjoyed admission and naturalization policies based on race and culture, intended to keep these nations “White.”

This liberal racial ethos was socially accepted with a good conscience throughout Western society. As Robert H. Jackson has observed:

Before the war prevailing public opinion within Western states — including democratic states — did not condemn racial discrimination in domestic social and political life. Nor did it question the ideas and institutions of colonialism. In the minds of most Europeans, equality and democracy could not yet be extended successfully to non-Europeans. In other words, these ideas were not yet considered to be universal human rights divorced from any particular civilization or culture. Indeed, for a century or more race had been widely employed as a concept to explain the scientific and technological achievements of Europeans as compared to non-Europeans and to justify not only racial discrimination within Western states but also Western domination of non-western peoples. Racial distinctions thus served as a brake on the extension of democratic rights to people of non European descent within Western countries as well as in Western colonies. [Robert H. Jackson, “The Weight of Ideas in Decolonization: Normative Change in International Relations,” In Ideas and Foreign Policy: Beliefs, Institutions and Political Change, ed. Goldstein and Keohane, Cornell University Press, 1993, p. 135]

Even in the case of denazified Germany, governments after 1945 endorsed, as a matter of common sense, and well into the 1970s, an ethnic conception of German nationality, accepting migrants only as temporary “guest workers” on the grounds that Germany was “not an immigrant country.” European nations took for granted the ethnic cohesion of their cultures and the necessity of barring the entry and incorporation of people from different cultures categorized as a threat to the “national character.”

Why, then, did the entire Western liberal establishment came to the view that European ethnocentrism was fundamentally at odds with liberal principles a few decades after WWII?

I argued in a paper posted at CEC over a month ago (which I have withdrawn because it was flawed) that a new set of norms (human rights, civic nationalism, race is a construct) with an in-built tendency for further radicalization suddenly came to take a firm hold over Western liberal nations in response to the Nazi experience, and that once these norms were accepted, and actions were taken to implement them institutionally, they came to “entrap” Westerners within a spiral that would push them into ever more radical policies that would eventually create a situation in which Western nations would come to be envisioned as places always intended to be progressing toward a future utopia in which multiple races would co-exist in a state of harmony.

Carl Schmitt

Was there something within the racialist liberalism of the pre-WW II era that made it susceptible to the promulgation of these norms and their rapid radicalization thereafter? Why did Western leaders succumbed to the radicalization of these norms so easily? The answer may be found in Carl Schmitt’s argument [2] that liberal states lack a strong concept of the political. I take this to mean that liberals leaders have an inherent weakness as political beings due to their inability to think of their nation states as a collectivity of people laying sovereignty claim over a territory that distinguishes between friends and enemies, who can belong and who cannot belong in the territory. Liberals believe that their nation states are associations formed by individuals for the purpose of ensuring their natural right to life, liberty, and happiness. They have an imaginary view of their liberal states as associations created by isolated individuals reaching a covenant, a contract or agreement, amongst themselves in abstraction from any prior community. They have a predilection to whitewash the fact that their liberal states, like all states, were forcibly created by a people with a common language, heritage, racial characteristics, religious traditions, and a sense of territorial acquisition involving the derogation of out-groups.

cs-r-gehoert-bei-chinesischen.jpgFor this reason, in the words of Carl Schmitt, liberals have an undeveloped sense of the political, an inability to think of themselves as members of a political entity that was created with a clear sense of who can belong and who cannot belong in the community. Having a concept of the political presupposes a people with a strong sense of who can be part of their political community, who can be friends of the community and who cannot be because they pose a threat to the existence and the norms of the community.

Liberals tend to deny that man is by nature a social animal, a member of a collective. They think that humans are all alike as individuals in wanting states that afford them with the legal framework that individuals need in the pursuit of liberty and happiness. They hold a conception of human nature according to which humans can avoid deadly conflict through a liberal state which gives everyone the possibility to improve themselves and society through market competition, technological innovation, and humanitarian works, creating an atmosphere in which political differences can be resolved through peaceful consensus by way of open deliberation.

They don’t want to admit openly that all liberal states were created violently by a people with a sense of peoplehood laying sovereign rights over an exclusive territory against other people competing for the same territory. They don’t want to admit that the members of the competing outgroups are potential enemies rather than abstract individuals seeking a universal state that guarantees happiness and security for all regardless of racial and religious identity. Humans are social animals with a natural impulse to identify themselves collectively in terms of ethnic, cultural and racial markers. But today Europeans have wrongly attributed their unique inclination for states with liberal constitutions to non-Europeans. They have forgotten that liberal states were created by a particular people with a particular individualist heritage, beliefs, and religious orientations. They don’t realize that their individualist heritage was made possible within the context of states or territories acquired through force to the exclusion of competitors. They don’t realize that a liberal state if it is to remain liberal must act collectively against the inclusion of non-Europeans with their own in-group ambitions.

Hegel, Hobbes, and Schmitt

But I think that Schmitt should be complemented with Hegel’s appropriation of the ancient Greek concept of “spiritedness.” Our sense of honor comes from our status within our ethnocultural group in our struggle for survival and competition with other groups [4]. This is the source of what the ancient Greeks called “spiritedness,” that is a part of the soul comprising, in Plato’s philosophy, pride, indignation, shame, and the need for recognition. Plato believed that the human soul consisted of three parts:

  1. a physically desiring part that drives humans to seek to satisfy their appetites for food, comfort, and sensual pleasure;
  2. a reasoning part that allows humans to calculate the best way to get the things they desire; and
  3. a “spirited” part that drives humans to seek honor and renown amongst their people.

Liberal theory developed in reaction to the destructive tendency inbuilt into the spirited part which was exemplified with brutal intensity during the Thirty Years War (1618-1648) and English Civil War 1642-1651). Thomas Hobbes devalued the spirited part of man as just another appetite for power, for riches, and adulation. At the same time, he understood that this appetite was different from the mere natural appetites for food and sensual pleasure, in that they were insatiable and conflict-oriented.

State of nature according to Hobbes

Hobbes emphasized the destructive rather than the heroic character of this aspect of human nature. In the state of nature men are in constant competition with other men for riches and honor, and so enmity is a permanent condition of the state of nature, killing, subduing, and supplanting competitors. However, Hobbes believed that other aspects of human nature, namely, the instinct for self-preservation, fear of death and desire for “commodious living,” were more powerful passions among humans, and that it was these passions, the fear of death in particular, which eventually led men to agree to create a strong central authority that would end the war of competing megalomaniacs, and maintain the peace by monopolizing the means of violence and agreeing to ensure the secure pursuit of commodious living by all. The “insatiable desire and ambition of man” for power and adulation would henceforth be relegated to the international sphere.

But by the second half of the seventeenth century Hobbes’s extreme pessimism about human nature gradually gave way to more moderate accounts in which economic self interest in the market place, love of money, as calculated and contained by reason, would come to be seen as the main passion of humans. The ideal of the spirited hero striving for honor and glory was thoroughly demeaned if not denounced as foolish. By the eighteenth century money making was viewed less as avaricious or selfish and more as a peaceful passion that improves peoples’ manners and “makes for all the gentleness of life.” As Montesquieu worded it, “wherever there is commerce, there the ways of men are gentle.” Commerce, it was indeed anticipated, would soften the barbaric ways of human nature, their atavistic passions for glorious warfare, transforming competition into a peaceful endeavour conducted by reasonable men who stood to gain more from trade than the violent usurpation of other’s peoples property.

hobbes.jpgEventually, liberals came to believe that commerce would, in the words expressed by the Scottish thinker William Robertson in 1769, “wear off those prejudices which maintain distinction and animosity between nations.” By the nineteenth century liberals were not as persuaded by Hobbes’s view that the state of nature would continue permanently in the international relationships between nations. They replaced his pessimistic argument about human nature with a progressive optimism about how humans could be socialized to overcome their turbulent passions and aggressive instincts as they were softened through affluence and greater economic opportunities. With continuous improvements in the standard of living, technology and social organization, there would be no conflicts that could not be resolved through peaceful deliberation and political compromise.

The result of this new image of man and political relations, according to Schmitt, was a failure on the part of liberal nations to understand that what makes a community viable as a political association with sovereign control over a territory is its ability to distinguish between friends and enemies, which is based on the ability to grasp the permanent reality that Hobbes understood about the nature of man, which is that humans (the ones with the strongest passions) have an insatiable craving for power, a passion that can be held in check inside a nation state with a strong Leviathan ruler, but which remains a reality in the relationship between nations. But, whereas for Hobbes the state of nature is a war between individuals; for Schmitt one can speak of a state of war between nations as well as between groups within a nation. Friends and enemies are always groupings of people. In our time of mass multicultural immigration we can see clearly how enemy groups can be formed inside a national collectivity, groups seeking to undermine the values and the ethnic character of the national group. Therefore, to have a concept of the political is to be aware, in our multicultural age, of the possibility that enemy outgroups can emerge within our liberal nations states; it is to be aware that not all humans are equally individualistic, but far more ethnocentric than Europeans, and that a polity which welcomes millions of individuals from collectivist cultures, with a human nature driven by the passions for power and for recognition, constitute a very dangerous situation.

It was Hegel, rather than Hobbes, who spoke of the pursuit of honor instead of the pursuit of riches or power for its own sake, as the spirited part of human nature, which is about seeking recognition from others, a deeply felt desire among men to be conferred rightful honor by their peers. We can bring this Hegelian insight into Schmitt to argue that the spirited part of the soul is intimately tied to one’s sense of belonging to a political community with ethno-cultural markers. Without this spirited part members of a community eventually lose their sense of collective pride, honor, and will to survive as a political people. It is important to understand that honor is all about concern for one’s reputation within the context of a group. It is a matter of honor for immigrants, the males in the group, to affirm their heritage regardless of how successful they may be economically. Immigrants arriving in large numbers are naturally inclined to establish their own ethnic groupings within Western nations rather than disaggregate into individual units, contrary to what liberal theory says.

Non-White ethnic groupings stand as “the other,” “the stranger,” to use Schmitt’s words, in relation to nations where Europeans still constitute the majority. The friend-enemy distinction, certainly “the Us versus Them” distinction, can be applied to the relation between non-White ethnic groupings and European national groupings in the degree to which the collective actions of non-European groups negates the heritage and overall way of life of the majority European population. Ethnic groupings that negate the way of life of European liberal nations must be repulsed if European nations are to preserve their “own form of existence.” To be cognizant of this reality is what it means to have a concept of the political in our current age of mass immigration. It does not mean that alien groupings are posing an immediate physical threat. Enemy groupings may also emerge as a major force through sheer demographic growth in a seemingly peaceful atmosphere, leading to all sorts of differences over voting patterns, accumulation of wealth and resources, ethnic hierarchies, divergent customs and religious practices, that become so pervasive that they come to threaten the way of life of the founding peoples, polarizing the nation into US versus Them.

The Leftist Interpretation of Schmitt is Wrong

But don’t Western liberals have enemies? Don’t they believe, at least many Republicans, that Islamic radicals, and nations openly opposed to “Western values,” are enemies of liberalism, against whom military violence may be used when necessary, even if Republicans negate the political in the sense that they want to bring about a situation in which humans define themselves as economic agents, or as moral crusaders dedicated to “democratic” causes? Don’t multicultural liberals believe that opponents of multiculturalism and mass immigration in Western countries are “deplorable” people who must be totally marginalized as enemies of humanity?

Academics on the left have indeed appropriated Schmitt to argue that right wing liberals have not negated the political but simply produced a highly effective smokescream over the West’s ambition to impose an American-led corporate order in the world nicely wrapped with human rights for everyone. They see Schmitt as someone who can teach us how to remove the smokescream of “democracy,” “human rights,” and “economic liberty” from Western hegemony, exposing the true power-seeking intentions behind the corporate liberal elites.

It seems to me that this appropriation of Schmitt is seriously flawed. Of course, Schmitt did not say that liberal nations as such are utterly devoid of any political existence, and of a concept of the political, since the very existence of a state supposes a sovereign right over a territory. A complete denial of the political would amount to a denial of the existence of one’s state. It is also true that for Schmitt “what has occurred [in liberal nations] is that economics has become political” in the enormous power that capitalist firms have, and in the way liberal states seek to augment, through non-economic means, their market share across the world. More than this, Schmitt emphasized how liberal states have “intensified” the enemy-friend distinction by ostracizing as enemies any state or political group disagreeing with their conception of humanity and conceptualizing liberal aggression against illiberal nations as final wars to end all wars.

There is no question, however, that Schmitt’s central thesis is that liberalism has no concept of the political and that it lacks a capacity to understand the friend-enemy distinction. Liberals believe that the “angelic” side of humans can manifest itself through proper liberal socialization, and that once individuals practice a politics of consensus-seeking and tolerance of differences, both inside their nations and in their relationships with other liberal nations, they will learn to avoid war and instead promote peaceful trade and cultural exchanges through commercial contracts, treaties, and diplomacy. Even though liberal states have not been able to “elude the political,” they have yet to develop theories of the political which apprehend this sphere of human life in terms of its defining aspect, the friend-enemy distinction. Rather, liberal theorists are inclined to think of the state as one pressure group among a plurality of political groups all of which lack a concept of the political in thinking that differences between groups can be handled through institutions that obtain consensus by means of neutral procedures and rational deliberation.

cs-cp1378163873.jpgThe negation of the political is necessarily implicit in the liberal notion that humans can be defined as individuals with natural rights. It is implicit in the liberal aspiration to create a world in which groups and nations interact through peaceful economic exchanges and consensual politics, and in which, accordingly, the enemy-friend distinction and the possibility of violence between groups is renounced. The negation of the political is implicit in the liberal notion of “humanity.” The goal of liberalism is to get rid of the political, to create societies in which humans see themselves as members of a human community dedicated to the pursuit of security, comfort and happiness. Therefore, we can argue with Schmitt that liberals have ceased to understand the political insomuch as liberal nations and liberal groups have renounced the friend-enemy distinction and the possibility of violence, under the assumption that human groups are not inherently dangerous to each other, but can be socialized gradually to become members of a friendly “humanity” which no longer values the honor of belonging to a group that affirms ethno-cultural existential differences. This is why Schmitt observes that liberal theorists lack a concept of the political, since the political presupposes a view of humans organized in groupings affirming themselves as “existentially different.”

Thus, using Schmitt, we can argue that while Western liberal states had strong ethnic markers before WWII/1960s, with immigration policies excluding ethnic groupings deemed to be an existential threat to their “national character,” they were nevertheless highly susceptible to the enactment of norms promoting the idea of civic identity, renouncing the notion that races are real, romanticizing Third World peoples as liberators, and believing that all liberal rights should be extended to all humans regardless of nationality, because they lacked a concept of the political. The racial or ethnocentric liberalism that prevailed in the West, collectivist as it remained in this respect, was encased within a liberal worldview according to which, to use the words of Schmitt, “trade and industry, technological perfection, freedom, and rationalization . . . are essentially peaceful [and . . .] must necessarily replace the age of wars.”

They believed that their European societies were associations of individuals enjoying the right to life and liberty. The experience of WWII led liberals to the conclusion that the bourgeois revolutions of the seventeenth and eighteenth centuries, which had finished feudal militarism, and which then led the Allies to fight a world war against the new militarism of fascism, were still “unfinished revolutions.” The liberal bourgeois nations were still not liberal enough, in their division and ranking of individuals along ethnic lines, with many individuals not enjoying the same rights that were “naturally” theirs. The project of the Enlightenment, “the universalist spirit of the political Enlightenment,” in the words of Jürgen Habermas, was not yet completed.

What Western liberals in the 1960s, the ones who dismantled immigration laws that discriminated against non-Whites, and introduce the notion that multiple cultures could co-exist within the same state, did not realize was that their sense of racial identity was the one collectivist norm still holding their liberal nations safely under the concept of the political. Once this last bastion of collectivism was deconstructed, liberal nations would be caught up within a spiral of radicalization wherein liberal nations would find it ever more difficult to decide which racial groups may constitute a threat to their national character, and which groups may be already lurking within their nations ready to play the political with open reigns, ready to promote their own ethnic interests; in fact, ready to play up the universal language of liberalism, against ethnocentric Europeans, so as to promote their own collectivist interests.

Source: http://www.eurocanadian.ca/2016/10/carl-schmitt-liberal-n... [6]

Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

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[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/01/carlschmitt.jpg

[2] Carl Schmitt’s argument: http://press.uchicago.edu/ucp/books/book/chicago/C/bo5458073.html

[3] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2016/10/SchmittQuote.jpg

[4] in our struggle for survival and competition with other groups: https://www.amazon.ca/gp/product/0985452307/ref=as_li_tf_tl?ie=UTF8&camp=15121&creative=330641&creativeASIN=0985452307&linkCode=as2&tag=counofeurocan-20

[5] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2016/10/State-of-nature-Hobbes.jpg

[6] http://www.eurocanadian.ca/2016/10/carl-schmitt-liberal-nations-have-open-borders-because-they-have-no-concept-of-the-political.html: http://www.eurocanadian.ca/2016/10/carl-schmitt-liberal-nations-have-open-borders-because-they-have-no-concept-of-the-political.html

mardi, 12 juillet 2016

Carl Schmitt : le nomos de la terre ou l’enracinement du droit

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Carl Schmitt : le nomos de la terre ou l’enracinement du droit

Dans Le Nomos de la Terre (1950), Carl Schmitt montre qu’il ne peut exister d’ordre sans enracinement. Contre la pensée positiviste et l’idéal cosmopolitique, il en appelle à la terre, substrat élémentaire de toute société, pour comprendre le rapport de l’humanité au monde.

[Article initialement paru dans la revue PHILITT #2 consacrée à la terre et à l’enracinement.]

Grande figure de la Révolution conservatrice allemande, Carl Schmitt s’oppose aux héritiers du positivisme d’Auguste Comte, et plus spécifiquement au positivisme juridique dont Hans Kelsen (d’ailleurs contradicteur de Schmitt) est le théoricien le plus célèbre. Celui-ci, dans sa Théorie pure du droit, n’étudie et ne reconnaît comme tel que le droit en vigueur édicté par l’homme, que l’on appelle droit positif, occultant l’origine profonde de ces normes et rejetant l’idée même d’un droit naturel qui serait fondé sur des valeurs éminentes. À l’inverse, s’attachant à en retrouver la source, Schmitt ressuscite la conception d’un droit inhérent à la terre. Si la localisation, l’espace géopolitique délimité, prime dans son étude des rapports de force, sa philosophie du droit nous invite à une lecture très organique, à la connotation écologiste. Alors, sans même invoquer de quelconques valeurs morales, que les positivistes qualifient d’extrinsèques à la matière juridique pour mieux les mépriser, Le Nomos de la Terre met la logique de ces légalistes à l’épreuve du bon sens du paysan: «En premier lieu, la terre féconde porte en elle-même, au sein de sa fécondité, une mesure intérieure. Car la fatigue et le labeur, les semailles et le labour que l’homme consacre à la terre féconde sont rétribués équitablement par la terre sous la forme d’une pousse et d’une récolte. Tout paysan connaît la mesure intérieure de cette justice.» Aussi la terre est-elle délimitée par l’homme qui la travaille, de même que par les reliefs ou les cours d’eau. Enfin, elle est le socle de toutes les clôtures, autant de manifestations visibles de l’ordre social, du pouvoir et de la propriété. On comprend donc que la terre est «triplement liée au droit». Il existe un ordre particulier, propre et défini par et pour une terre donnée, qui s’impose dès lors que celle-ci est prise. Si les mers sont libres, l’ordre règne sur la terre ferme.

ntcs5208_h430.jpgCette vision d’un enracinement de fait et a priori de l’ordre semble évacuer la posture relativiste consistant à croire que ce sont les États et les nations qui plongent de force, à grands coups d’artifices, de symboles et de discours enflammés, un ordre qu’ils créent de toutes pièces dans le sol qu’ils dominent. Comme si l’enracinement se décrétait, comme s’il s’agissait de donner les attributs d’une force naturelle et le visage rassurant d’un mythe fondateur visant à unir un peuple à sa terre de façon quasi-mystique. Carl Schmitt met en échec ceux qui aujourd’hui encore voudraient voir en la notion d’un enracinement garant de l’ordre une pure abstraction romantique sans prise avec le réel, un outil superflu et ringard à dispositions des politiques, voire un mythe «nationaliste» du «repli sur soi et de la haine de l’autre», selon la formule abjecte désormais consacrée. En réalité nous découvrons que c’est tout l’inverse, car qui n’admet pas qu’une terre particulière est irrémédiablement liée à un ordre particulier – celui qui se prétend citoyen du monde, par exemple – considérerait que l’ordre auquel il consent à se conformer est valable partout: il violerait potentiellement toutes les terres, tous les ordres, tous les droits, à l’exception du sien.

Le pacifique authentique ne peut qu’admettre qu’au moment même où une terre est prise, l’ordre qu’elle porte s’impose et ce aussi bien vers l’intérieur, à ceux qui la prennent, que vers l’extérieur, c’est à dire vers l’étranger qui ne saurait légitimement imposer un ordre différent. Autrement dit, considérer qu’il n’existe pas de lien concret d’enracinement entre un ordre particulier, un droit donné et la terre sur laquelle il règne, en vertu de la prise de cette terre, est une négation des souverainetés qui s’expriment dans la diversité des ordres. L’enracinement n’apparaît donc plus comme un choix, un mythe ou une construction a posteriori, mais d’abord comme une nécessité indépassable du politique: celle de se soumettre à l’ordre que la terre porte et impose à celui qui la prend, la partage et la travaille. Refuser ce postulat ne peut mener qu’à la destruction du substrat élémentaire même de toute société. En employant à dessein le terme de nomos pour «la première mensuration qui fonde toutes les mesures ultérieures, pour la première prise de terres en tant que première partition et division de l’espace, pour la partition et la répartition originelle», l’auteur formule en creux une critique de la pensée positiviste dans son ensemble, que le «mode de naissance» des choses n’intéresse pas et pour qui seule la «loi du phénomène» compte. Cet effort sémantique montre qu’en matière de droit aussi, celui qui méprise l’histoire méprise la terre autant que celui qui méprise la terre méprise l’histoire: il est un déraciné.

Le projet politique idéaliste et universaliste hérité de la Révolution française semble alors absurde, faisant de ce que l’auteur désigne comme des «généralisations philosophiques de l’époque hellénistique faisant de la polis une kosmopolis» une ambition concrète. Et Schmitt d’ajouter qu’ «elles étaient dépourvues de topos, c’est à dire de localisation, et ne constituaient donc pas un ordre concret». On en vient naturellement à penser que tout projet politique, s’exprimant par le droit, qui ne s’ancre à aucun moment dans la terre ferme et les réalités qu’elle impose, est suspect.

De la pensée hors-sol au mépris destructeur de la terre

Car si le déracinement des positivistes, quand il n’est qu’une hypothèse de travail, une posture intellectuelle d’universitaire n’est a priori pas un danger, les évolutions juridiques et politiques auxquelles s’intéressent Carl Schmitt à la fin du Nomos de la Terre illustrent le désastre auquel ce paradigme conduit. Le «jus publicum europaeum» que la Révolution française commença à remettre en cause avant que la Première Guerre mondiale ne l’achevât, reposait sur l’acceptation de la diversité des ordres juridiques et spatiaux et la reconnaissance de l’ennemi comme justus hostis, autrement dit comme un ennemi légitime à faire la guerre. Mais la pensée hors-sol de la Société des Nations (puis de l’Organisation des Nations unies), l’impérialisme américain parfois masqué sous les traits d’un universalisme bienveillant, conjugués avec les moyens considérables de destruction massive, pourraient avoir rompu l’attachement instinctif et naturel de l’humanité à la terre en introduisant de nouveau la notion autrefois théologique (et soumise à l’arbitrage du Pape) de justa causa dans le rapport à la guerre tout en subventionnant le rêve cosmopolitique. Comme si l’homme aujourd’hui capable de détruire la terre de l’autre (surtout si ce dernier ne peut pas en faire autant) la méprisait profondément. Comme si l’homme capable, aussi, de détruire la planète, ne pouvait avoir soif que de la dominer toute entière pour se préserver. Et l’ambition d’un «nouvel ordre mondial», expression que nous empruntons à George W. Bush lui-même, est le symbole le plus frappant de cette rupture politique et intellectuelle: il ne semble plus y avoir de place pour des ordres politiques et juridiques multiples et divers, liés à leurs propres terres, dont les relations seraient régies par des normes visant simplement à limiter la guerre. Il y aura désormais un ordre unique, universel et cosmopolitique, que l’on imagine naître dans les décombres de la Vieille Europe, prenant symboliquement racine dans les ruines de la cathédrale de Dresde. Un ordre qui n’a pas d’histoire puisqu’il n’a rien pris, un ordre qui n’a pas de terre mais qui a détruit.

Aussi, la guerre ne sera plus limitée, mais criminalisée, et prohibée en principe par l’Organisation des Nations unies. Car un ordre, même mondial, ne peut-être que pacifié. L’humanité s’étant employée à accumuler des moyens suffisants pour réduire le monde en poussière, s’est de ce fait confrontée à la question morale de l’usage de ces armes de destruction massive. On ne peut raisonnablement admettre de les employer que dans des guerres prétendument justes contre un ennemi qu’il faut détruire, et non plus seulement contraindre. Or la guerre aérienne et les très médiatiques opérations de «police bombing» sont l’image du mépris absolu pour la terre. «Le bombardement aérien (…) n’a pour sens et fin que l’anéantissement», constate l’auteur. On voit les avions de chasse comme autant de vecteurs arrogants et fiers de ce nouvel ordre mondial qui s’impose par le haut, méprisant les terres depuis leurs cockpits, eux qui ne connaissent que celle de la maison mère américaine. En prétendant mener une guerre sans jamais fouler le sol du territoire ennemi, on rompt ce lien essentiel aux yeux de Schmitt entre l’occupation, l’obéissance, et la protection. Sans soldat au sol, et donc sans lien concret avec la terre, on ouvre la voie à sa destruction pure et simple depuis les airs. Mais l’opinion est préservée: ses soldats ne meurent plus au champ d’honneur. Une fois encore, le lien à la terre apparaît comme une incontournable et nécessaire source de l’ordre, quand l’usage du seul espace aérien sème le chaos. Il semble que seule la projection d’hommes sur terre, mère et support de tout ordre, soit susceptible de donner des résultats politiques satisfaisants. Mais peu importe, puisqu’il n’y a plus de guerre, puisque tous les ennemis que l’on frappe ne sont pas des États égaux à ceux qui les combattent, mais l’incarnation du Mal! Or, si comme David Cumin, biographe et spécialiste de Carl Schmitt, aime à le rappeler, l’ennemi est pour ce dernier «la figure de notre propre question», la guerre d’anéantissement interroge le paradigme et la morale des grandes puissances militaires occidentales. Ce nouveau rapport à la terre nous invite à considérer sérieusement la leçon de Carl Schmitt à la fin de sa préface: «C’est aux pacifiques que la terre est promise. L’idée d’un nouveau nomos de la terre ne se révèlera qu’à eux.» Car la guerre moderne et destructrice prive le droit de sa source et de son siège qu’est la terre.

lundi, 11 juillet 2016

Carl Schmitt, citation

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mercredi, 15 juin 2016

Carl SCHMITT, La guerra d'aggressione come crimine internazionale

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Teodoro Klitsche de la Grange: Recensione a

Carl SCHMITT, La guerra d'aggressione come crimine internazionale

Ex: http://civiumlibertas.blogspot.com

Carl Schmitt La guerra d’aggressione come crimine internazionale. Il Mulino Bologna 2015 pp. 142, € 16,00.

schmittzzzzzz.jpgNel 1945 il grande industriale tedesco Friedrick Flick, che aveva fondate ragioni di credere di venire accusato dagli alleati per la collaborazione a guerra d’aggressione, richiese a Carl Schmitt un parere per la difesa da tale (eventuale) accusa. Accusa che non venne mai mossa a Flick, il quale fu tuttavia condannato per un “capo d’imputazione” diverso: lo sfruttamento di manodopera straniera deportata dalle S.S..

Schmitt in tale promemoria distingue tra i crimini di guerra tra classi le “violazioni delle regole e degli usi della guerra, commesse principalmente da appartenenti alle forze armate di uno Stato belligerante. Si tratta d’infrazioni del cosiddetto diritto in guerra, lo jus in bello … Tale regole presuppongono che la guerra sia permessa e legale”; “Di natura essenzialmente diversa è il secondo tipo di crimini di guerra che qui deve essere distinto. Si tratta delle atrocities in un senso specifico: uccisioni pianificate e crudeltà disumane, le cui vittime erano uomini inermi”. Neppure la “esimente” dell’esecuzione di un ordine superiore può escludere in tali casi l’imputabilità e la punibilità. Infine la terza “Crimini di guerra nel terzo significato del termine è la guerra di aggressione, concepita come un crimine in sé, vale a dire come un crimine secondo il diritto internazionale. Qui, dunque, la guerra stessa è un crimine e non si tratta propriamente di un crimine di guerra ma, più precisamente, del «crimine di guerra»”.

aggre6cover25992.jpegSchmitt valuta queste tre classi alla luce sia del “politico” che dei principi dello jus publicum europaeum. In primo luogo se la guerra è, nel sistema westphaliano, non solo un fatto pubblico ma che presuppone la distinzione tra pubblico e privato, allora non può farsi carico a un privato (come Flick) di aver concorso ad una guerra di aggressione.

Come scrive Galli nella presentazione, Schmitt considera “la guerra come un atto di sovranità di cui sono responsabili gli Stati – una responsabilità politica soprattutto – e non certo i singoli cittadini, tenuti solo ad obbedire al potere legale. Schmitt recupera quindi l’ordine moderno che egli invece ha descritto, già da una decina d’anni, come periclitante: ovvero lo jus publicum europaeum all’esterno, per cui la guerra è affare di Stato, che non può essere processata; e, all’interno, un rigido positivismo giuridico statocentrico”.

D’altra parte il giurista di Plettenberg distingue tra il pensiero giuridico inglese (e in larga misura anche americano) da quello continentale in relazione alla guerra d’aggressione come crimine: “si pone anche per la concezione americana la questione di che cosa propriamente sia la novità di un crimine. La conseguenza è che qui si giunge spesso a una sintesi e a una mescolanza di punti di vista morali e giuridici. Per il modo di pensare del giurista di formazione positivistica, continentale, la separazione del punto di vista giuridico da quello morale è familiare da quasi due secoli, proprio rispetto alla questione della penalizzazione di nuove fattispecie di reato. Negli Stati Uniti d’America l’unione dei due punti di vista potrebbe far sì che gli ostacoli che derivano dal principio nullum crimen sine lege siano addirittura meno presenti per il giurista americano di quanto lo siano per un giurista della tradizione inglese pura”.

Per la guerra d’aggressione prosegue: “In questo caso, sia la fattispecie stessa (atto di aggressione e guerra di aggressione) sia la connessione tra il carattere internazionale e quello criminale, rappresentano davvero un novum, la cui particolarità deve essere portata a consapevolezza per mostrare come il principio nullum crimen abbia qui il significato di un limite alla punizione”.

È chiaro che poi l’argomentazione di Schmitt va sul concetto di giusta causa, la quale cancella il requisito dello justus hostis che nel pensiero dei teologi (da Suarez a Bellarmino) andava con quello di conserva: ambedue, insieme allo jus in bello e alla recta intentio, condizioni dello justum bellum.

Nel complesso un libro interessante che completa i numerosi scritti dedicati da Schmitt alla modificazione del concetto di guerra nel XX secolo.

Teodoro Klitsche de la Grange

mardi, 14 juin 2016

Carl Schmitt, Un giurista davanti a se stesso

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Teodoro Klitsche de la Grange: recensione a:

 
Carl Schmitt, Un giurista davanti a se stesso
Neri Pozza Editore, Vicenza 2012, pp. 312, € 16,50.
 
Ex: http://civiumlibertas.blogspot.com

Questa non è una delle molte raccolte di scritti di Schmitt tradotti e pubblicati in Italia negli ultimi quarant’anni, ma si prefigge, attraverso i testi e le interviste raccolte (alcuni dei quali già pubblicati in italiano), di “fornire una chiave di lettura per una delle figure più discusse e contraddittorie del ventesimo secolo” e l’“esercizio di lettura che il libro propone assomiglia pertanto alla decifrazione di quelle figure nascoste dentro un paesaggio o in altro disegno che appaiono improvvisamente se si tiene lo sguardo fisso sull’immagine abbastanza a lungo” (così Giorgio Agamben nell’introduzione).

cs-$_35.JPGSchmitt è stato uno dei maggiori interpreti della crisi del XX secolo; la sua peculiare concezione del diritto ha fatto si che lui, giurista come si considerò sempre fino alla morte – ma come tutti i grandi giuristi portatore di una visione che trascende il mero orizzonte giuridico – sia stato in Italia apprezzato prevalentemente come politologo e filosofo della politica.

Tuttavia come scrive Agamben nell’attenta introduzione “non si comprende nulla del pensiero di Schmitt, se non lo si situa innanzitutto in una concezione del diritto che poggia su un elemento antagonistico rispetto alla legge”. E tale considerazione è del tutto condivisibile; ancor più a considerare che la polemica anti-normativista di Schmitt è essa stessa rivolta ad indagare la crisi dell’Europa (e del pensiero europeo) del XX secolo, di cui il normativismo di Kelsen – e ancor più quello dei suoi epigoni è stato, ad un tempo, la conseguenza e anche la rappresentazione (forse) più coerente. Risolvere la legittimità nella legalità, l’esistente nel normativo, l’ordinamento nella norma, la decisione sovrana nella coscienza dell’interprete, espungendo (i primi termini) dal diritto è la sintesi giuridica e politica di una concezione che ha perso i riferimenti (e la dipendenza) dalla concretezza e dalla storia. E così da quello che Maurice Hauriou chiamava le fond théologique, al quale la couche juridique è ancorata (e senza la quale diventa ondivaga).

D’altra parte i contributi del giurista di Plettemberg hanno il pregio d’interpretare non solo il tempo a lui contemporaneo, ma anche il futuro. Come si legge nell’introduzione “A quasi trent’anni di distanza, le analisi di Schmitt sono divenute ancora più pertinenti. Si prenda il problema della costituzione europea, che oggi è al centro del dibattito politico. Ciò che il «no» dei cittadini francesi e olandesi è venuto a ricordare è che una nuova costituzione non può essere insediata attraverso accordi «legali» fra governi, ma deve passare attraversi una fase costituente. Un nuovo potere costituito senza un potere costituente può essere legale, ma non legittimo. E nulla è più sconcertante dell’incoscienza con cui le democrazie occidentali, dopo essere scivolate tra le due guerre legalmente nel fascismo, pretendono oggi di trapassare altrettanto legalmente in prassi e forme di governo per le quali ci mancano i nomi e che non sono certo migliori di quello”. Schmitt ha buon gioco nel dimostrare che un potere costituente europeo implica “qualcosa come un patriottismo europeo”. Il quale a sua volta presuppone un sentire comune e un patrimonio che, in omaggio ad un legalismo burocratico il trattato naufragato, col rifiuto delle “radici giudaico-cristiane”, dimenticava e respingeva.

Non sorprende perciò quanto ancora si legge nell’introduzione del saggio Staat, bewegung, volk, tradotto da Cantimori con il titolo Principi politici del Nazionalsocialismo, indovinato perché Cantimori aveva ben capito che Schmitt intendeva ivi delineare i principi del nuovo ordine nazionalsocialista. Come scrive Agamben “Ma, per i lettori attenti di oggi, l’interesse è raddoppiato dalla scomoda, ma ineludibile consapevolezza che questo testo delinea, in realtà, i principi costituzionali delle società postdemocratiche del secolo ventesimo nel cui solco ancora oggi ci muoviamo. Se l’interpretazione che di questo testo proponiamo è corretta, allora esso conterrebbe il centro esoterico e per così dire l’arcanum della teoria schmittiana del diritto pubblico”. Tuttavia oltre che alla biopolitica e al criterio del politico/impolitico il collegamento con le costituzioni novecentesche, del c.d. Stato sociale (o pluriclasse), è, ad avviso di chi scrive, dato dalla continuità (dialettica) dello Stato totale come “autorganizzazione della società”. Stato totale quantitativo nella Repubblica di Weimar, che diviene (anche e soprattutto) qualitativo col Terzo Reich (v. Der Hüter des Verfassung, saggio di Schmitt, peraltro precedente l’ascesa di Hitler al potere).

La stessa capacità di comprensione dell’attualità emerge (tra gli altri) dal saggio sulla “Rivoluzione legale mondiale”, nel quale l’ormai anziano (1978) Schmitt applica all’eurocomunismo - che appartiene di pieno diritto alla fase senescente, ideologica e politica, del comunismo – le proprie considerazioni sull’uso politico della legalità e sul cambiamento legale della costituzione della rivoluzione, già enunciate negli anni ’20 sulla dottrina (e la prassi) leninista e sul costituzionalismo di Kelsen.

Valutando la tesi di Santiago Carillo che i metodi violenti della rivoluzione bolscevica sono “oggi antiquati e si troverebbero nel posto giusto e nel momento giusto solo laddove si trattasse di fare il salto da una società agrario-contadina a una moderna ed industriale. In quanto metodi di una rivoluzione comunista erano legittimi ma non legali. Oggi invece sono superati, perché adesso a essere in questione nelle società industrialmente sviluppate è la potenza statale. Quei metodi, pertanto, non possono più essere un modello appropriato di rivoluzione comunista e devono essere sostituiti da metodi pacifici, vale a dire statali-legali”. Lo Stato peraltro è “il portatore della legalità, la quale realizza quel miracolo che è una rivoluzione pacifica. La rivoluzione, dal canto suo, legittima lo Stato in cambio dell’atto di beneficenza con cui esso permette che abbia luogo una rivoluzione statale-legale. La rivoluzione legale diviene permanente e la rivoluzione statale permanente diviene legale”. Il che significa per gli eurocomunisti condividere la tesi kelseniana sull’abrogazione legale della Costituzione. Schmitt ricorda che proprio le ascese del fascismo in Italia e del nazismo in Francia avvennero osservando le procedure costituzionali, pure quelle dettate in omaggio alla “superlegalità” (concetto di Maurice Hauriou). Quindi, in sostanza nulla di nuovo. Solo che il tutto non elimina il problema della legittimità dell’ordinamento e del potere costituente, ambedue non riconducibili alla legalità.

Daumier_Avocats_avec_toques_m.jpgIn particolare il potere costituente ha generato una prassi per il cambiamento di costituzione: “ogni rivoluzionario di professione ha imparato a maneggiarle: si destituisce il governo legale esistente, si convoca un «governo provvisorio» e si indice un’assemblea nazionale costituente… attraverso rivoluzioni grandi e piccole, europee e non europee, è sorta nell’arco di due secoli una prassi legittimante nella legalizzazione del colpo di stato e delle rivoluzioni”. Tuttavia è “difficile immaginare il trasferimento di un potere costituente dalla nazione all’umanità…L’organizzazione attuale della pace mondiale non è utile solo all’unità, ma anche allo status quo dei suoi numerosi membri sovrani. Dovremmo forse prospettarci un’assemblea plenaria dell’ONU p almeno una seduta del Consiglio di sicurezza che si svolga similmente a quella della notte del 4 agosto 1789, in cui i privilegiati rinunciarono festosamente a tutti i loro privilegi feudali?”.

A cercare il “filo di Arianna” in questi saggi e contributi (uno di questi fili perché, data la ricchezza delle riflessioni di Schmitt, ve ne sono parecchi) pare a chi scrive di ricondurlo alla formula che “l’esistente prevale sul normativo”, la quale, pur nelle differenze, accomuna Schmitt non solo ai concetti ed alla dottrina dello jus publicum europeaeum, ma anche al pensiero di Hauriou e di Santi Romano. Al contrario della dottrina del diritto prevalente nel secondo dopoguerra, dove è il normativo che più che prevalere, non considera l’esistente.

Così i rapporti forza/diritto, legittimità/legalità, costituente/costituiti, comando/obbedienza sono più che risolti, occultati da un normativismo che ha la funzione della notte di Hegel: di rendere grigie tutte le vacche. E così di nascondere il potere sotto la couche di una legalità autoreferenziale. La quale è come il barone di Munchaüsen il quale evitava di cadere nella palude sostenendosi per il codino della parrucca. Prima o poi il tonfo è assicurato.
Teodoro Klitsche de la Grange

dimanche, 22 mai 2016

NATION? – Un retour du «romantisme politique»?

NATION? – Un retour du «romantisme politique»?
 
par Maryse Emel
Ex: http://www.nonfiction.fr


greek.jpgLe livre récent de Christian E. Roques , (Re)construire la communauté, a pour projet de présenter la réception du romantisme politique sous la République de Weimar par des philosophes et des penseurs politiques critiques de la modernité. Son but n'était pas de faire un travail sur la vérité des interprétations multiples qui en ont été faites, mais plutôt de voir ce que ces diverses lectures ont pu ouvrir comme perspectives politiques. L’enjeu est qu’au départ, le romantisme politique consiste en un discours en opposition à la philosophie des Lumières, qui met en question le pouvoir de la raison, et donc le pouvoir politique fondé sur l’exercice de la raison.

Genèse du romantisme politique

Le premier romantisme allemand s’organisme autour du Cercle d’Iéna, qui rassemble le théoricien de la littérature, Friedrich Schlegel, le philosophe Johann Gottlieb Fichte et des écrivains comme Ludwig Tieck, Wilhelm Heinrich Wackenroder et Novalis. Reprenant la thématique de Max Weber à propos du désenchantement du monde, le philosophe allemand Rüdiger Safranski identifie le projet romantique, dans sa globalité, comme une tentative pour ré-enchanter le monde et redécouvrir le magique, en repoussant la raison dans ses confins. Autour de 1800, le motif romantique s’inscrit dans plusieurs champs : la théologie protestante de Friedrich Schleiermacher définit ainsi la religion comme « le sens et le goût pour l’infini », et les études philologiques d’un Görres ou d’un Schlegel cherchent les racines de la langue et la vérité de l’origine dans l’Orient et l’Inde antiques. Ce désir des origines perdues s’exprime non seulement à travers des voyages spirituels dans le lointain, mais aussi dans la reconstitution d’un passé imaginaire. La Grèce de Friedrich Hölderlin illustre cette relation au passé, poétiquement condensée, et qui confronte une Antiquité mythologiquement sublimée à la réalité profane de sa propre époque :

«La vie cherches-tu, cherche-la, et jaillit et brille
Pour toi un feu divin du tréfonds de la terre,
Et frissonnant de désir te
Jettes-tu en bas dans les flammes de l’Etna.
Ainsi dissolvait dans le vin les perles l’effronterie
De la Reine ; et qu’importe ! si seulement
Tu ne l’avais pas, ta richesse, ô poète,
Sacrifiée dans la coupe écumante !
Pourtant es-tu sacré pour moi, comme la puissance de la terre,
Celle qui t’enleva, mis à mort audacieux !
Et voudrais-je suivre dans le tréfonds,
Si l’amour ne me retenait, ce héros.» 

Dans un second temps, émerge le romantisme politique. Il prend racine à partir du concept de nation chez Fichte, de l’idée d’un « Etat organique » développée par Adam Müller, ainsi que dans le populisme artificiel de Ernst Moritz Arndt et de Friedrich Jahn. Il se nourrit également de la haine à l'encontre de Napoléon et des Français, transfigurée par la littérature de Heinrich von Kleist. Aussi le romantisme s’est-il éloigné de ses prémisses philosophiques. Cette prise de distance caractérisera également la littérature du romantisme tardif d’un Josef von Eichendorff et d’un E.T.A. Hoffmann.

Réceptions du romantisme : un concept polémique

Qui sont les philosophes ou les théoriciens qui, sous la République de Weimar, opposent le romantisme à ce qu’ils perçoivent comme des errements de la modernité? . Christian E. Roques distingue trois principales lectures du « romantisme politique ».

La première, de 1918 à 1925, fait immédiatement suite à l’instauration de la République weimarienne : elle met en place un discours à la recherche d’une communauté nouvelle ainsi qu’une critique de l’individualisme libéral. Le romantisme, traditionnellement identifié à un discours conservateur, a inspiré des projets communautaires d’inspiration à la fois socialistes et romantiques, cherchant à donner sens au politique après la conflagration guerrière de 1914-1918. A droite, au contraire, certaines voix comme celle du philosophe Carl Schmitt s’élèvent contre le romantisme.

La seconde lecture du « romantisme politique », de 1925 à1929, est plus apaisée : elle tente d’établir le romantisme comme fondement de la « pensée allemande ». C’est ce qui structure la pensée du philosophe et sociologue autrichien Othmar Spann tout au long des années 1920-1930. Le romantisme politique devient chez lui un discours droitier. Il met en place tout un travail philologique sur les auteurs romantiques. Quant au sociologue allemand Karl Manheim, il démontre dans sa thèse de 1925,  comment le conservatisme est inhérent au romantisme. Il révèle ainsi à partir de ses travaux un nouveau rapport entre politique et savoir, ouvert sur la dimension irrationnelle de l’existence humaine.

Puis de la crise de 29 jusqu’à la veille de l’avènement du parti nazi, l’ampleur des troubles socio-économiques rend caduque le questionnement théorique sur la question de la modernité et de son dépassement, face à l’imminence de la crise politique et l’urgence de la question du « que faire ? » - qualifiée de léniniste par Christian Roques. Ainsi, si l'ancien officier de la Wehrmacht Wilhem von Schramm affirme encore l’actualité du projet romantique, c’est en proposant d’adopter la démarche de « l’ennemi bolchévique », à savoir sa méthode révolutionnaire d’enthousiasme pseudo-religieux, afin de retrouver l’esprit communautaire vécu dans les tranchées. Le théologien protestant allemand Paul Tillich ouvre dans un même temps un dialogue avec les forces « socialistes » de tout bord.


romcom260.jpgRéactiver la polémique du romantisme au XXIe siècle ?

Mais l’essentiel se situe peut-être après le moment de Weimar : en effet, ce sont les discours et les actions politiques produites pendant la République à partir de ces lectures des romantiques, qui donneront sens aux réflexions et décisions politiques après Weimar. A ce titre, l’ouvrage de Christian E. Roques s’apparente au laboratoire d’une modernité en crise. Il y expérimente, par des lectures croisées du « romantisme politique », des rencontres imprévues entre des penseurs au positionnement politique opposé. De fait, dès Weimar, le « romantisme politique » est d’abord un concept polémique pour comprendre le réel présent : c’est une sorte d’instrument de mesure des idéologies politiques actuelles, à la lumière des idéologies passées d’Etats en crise.

Dans le monde moderne, le romantisme se présente comme le correctif salutaire aux discours politiques « rationnels », dans la mesure où ses aspirations transgressives font apparaître les limites de la rationalité. C’est en cela qu’on a pu y lire une opposition aux Lumières ou du moins une réflexion sur les limites du pouvoir de la raison. Le philosophe brésilien Michael Lôwy, déclarait, en faisant référence à Marx que le romantisme était d’abord une « vision du monde » en opposition à la bourgeoisie au nom d’un passé antérieur à la civilisation bourgeoise, et qu’il perdurerait tant que cette bourgeoisie sera là, comme son contre-modèle indissociable  : « On pourrait considérer le célèbre vers de Ludwig Tieck, Die mondbeglanzte Zaubernacht, « La nuit aux enchantements éclairée par la lune », comme une sorte de résumé du programme romantique » .

Finalement, le travail de Christian Roques se justifie par sa conviction que le concept romantique n’aurait rien perdu de sa force polémique dans notre propre présent : « Au regard notamment du retour en force du discours écologique (voir éco-socialiste) qui repose fondamentalement sur un appel à une approche universaliste, dépassant les égoïsmes individuels pour adopter une conception globale, il semble légitime de se demander si nous ne sommes pas à l’aube d’une nouvelle "situation romantique". » . Présenté comme alternative au discours libéral en temps de crise, le romantisme politique réapparaît aujourd’hui avec des références politiques et philosophiques qui dépassent le cadre binaire des partis politiques. .

Christian E. Roques, (Re)construire la communauté : La réception du romantisme politique sous la République de Weimar, MSH, 2015, 364 p., 19 euros

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Tous les articles de la chronique Nation ?

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Présentation de l'éditeur:

(sur: http://www.fabula.org ) 

"Le "romantisme politique" connaît un regain d'intérêt important en Allemagne sous la République de Weimar (1918-1933), au point de devenir un élément essentiel du discours politique de l'époque. Avec la "communauté", la "nation" ou le "peuple", le "romantisme" va constituer un des mots magiques autour desquels se cristallisent les débats de la vie intellectuelle weimarienne. Le présent ouvrage entreprend donc d'analyser les stratégies de discours politiques qui se structurent autour du paradigme romantique entre 1918 et 1933. À partir d'un corpus d'auteurs variés, pour certains célèbres et pour d'autres tombés dans l'oubli (Arthur Rubinstein, Carl Schmitt, Othmar Spann, Karl Mannheim, Wilhelm von Schramm, Paul Tillich), il est possible de montrer l'existence non d'une idéologie politique clairement définie, mais d'une sensibilité "romantique" qui transcende les oppositions politiques traditionnellement conçues comme imperméables (gauche/droite, conservateur/progressiste, nationaliste/universaliste, etc.) et qui se construit dans l'opposition fondamentale à l'individualisme matérialiste du "libéralisme" capitaliste."

Sommaire:

  • Introduction : La république de Weimar, laboratoire d'une modernité en crise -- Romantisme, romantisme politique : l'impossible définition ? -- La généalogie du romantisme : un paradigme fantôme -- Le romantisme politique : de gauche, de droite, au-delà ? -- Pour une archéologie de la réception -- La rupture méthodologique -- Le problème de la téléologie : savoir historique et condamnation morale des engagements en faveur du nazisme -- Le champ discursif du "romantisme politique" : les marqueurs d'une renaissance -- Des "néoromantiques" sous la République de Weimar ? -- La redécouverte d'Adam Müller -- Le socialisme romantique : un projet démocratique post-marxiste -- Socialisme, marxisme, romantisme : affinités électives ? -- Landauer, penseur socialiste vakisch -- Les jeunesses socialistes entre romantisme et marxisme -- Une révolution sous le signe des conseils -- Faire sens du moment révolutionnaire -- Crise de la théorie marxiste -- Une nouvelle idée émerge : des soviets allemands ? -- Le conseil au coeur de la nouvelle démocratie -- Du paradis médiéval aux abysses absolutistes -- Le Moyen Âge communautaire et démocratique -- La barbarie de l'absolutisme : contrat social et souveraineté -- Crise de l'absolutisme -- Romantisme et absolutisme -- Le romantisme comme projet d'avenir -- Le romantisme, une hérédité occultée -- Une critique radicale du libéralisme -- La radiographie de l'ennemi : Carl Schmitt contre le romantisme politique -- Un livre sous influences : les racines françaises de la critique schmittienne -- Le jeune Schmitt : une position atypique entre isolement et influence étrangère -- Les inspirateurs allemands -- Les parrains français -- Le romantisme politique : l'idéologie de l'ennemi -- Romantisme : l'impossible définition ? -- Aux sources intellectuelles du romantisme -- L'essence du romantisme : l'occasionnalisme subjectivisé -- Le romantisme comme impuissance politique -- Qui est l'ennemi ? Schmitt et la crise de l'idéologie allemande -- Schmitt l'inquisiteur de Carl ? -- Continuités d'une pensée en guerre -- La mort de l'intellectuel apolitique -- L'universalisme romantique d'Othmar Spann : la réponse allemande à l'individualisme moderne -- Spann et la galaxie universaliste -- Othmar Spann, père de l'Église néoromantique -- L'école néoromantique -- "L'État véritable" et l'actualité du romantisme politique -- De l'histoire économique au projet politique -- Les éléments de la contre-offensive romantique -- Rejet nazi de l'universalisme spannien : l'enjeu romantique -- Penser l'envers de la modernité : romantisme et conservatisme chez Karl Mannheim -- Penser à la marge -- L'émigré hongrois -- Un travail scientifique entre décentrement et écriture essayistique -- Trouver sa place à l'université : la thèse de 1925 -- La naissance romantique du conservatisme -- Conservatisme et traditionalisme : de l'anthropologie à l'idéologie -- Morphologie du conservatisme allemand : à contre-courant de la modernité -- Le locus antimoderne : le romantisme aux sources du conservatisme -- Une nouvelle synthèse ? -- S'ouvrir à l'irrationnel : penser comme conservateur -- La synthèse et ses "vecteurs" : une conceptualité romantique ?
  • La politique radicale de Wilhelm von Schramm : victoire du christianisme romantique -- Wilhelm von Schramm : officier, écrivain et théoricien politique -- Au coeur des réseaux du nouveau conservatisme weimarien -- La fascination du modèle russe : le bolchevisme entre émulation et terreur -- Ernst Jünger : nationalisme militaire et théorie de la guerre -- Les jeunes-conservateurs et la tradition du romantisme politique -- Le modèle soviétique -- Le projet intellectuel : aller à l'essentiel -- Théorie générale du bolchevisme -- Bolchevisme et romantisme allemand : généalogie du nouvel universalisme -- Revenir aux racines allemandes : le romantisme comme solution -- Le XIXe siècle allemand : entre mission romantique et schizophrénie nationale -- Le projet romantique et chrétien de Wilhelm von Schramm -- Mythe romantique et décision socialiste : Paul Tillich à la recherche de l'unité du politique -- La "jeune droite" et la rénovation de la social-démocratie -- Des "jeunes-socialistes" à la "jeune droite" -- La plateforme du renouveau : les Neue Blatter flir den religilisen Sozialismus -- Le projet socialiste contre le mythe romantique -- Crise et division : penser le monde moderne à l'aune du jeune Hegel -- Ontologie politique : l'homme entre origine et devenir -- Le mythe de l'origine : retour critique sur le romantisme politique -- Antinazisme ou réconciliation ? -- Le projet politique de Tillich en 1933.